Colpevole fino a prova contraria

di Giovanni Benaglia*

L’impossibilità da parte dello Stato di perseguire con efficacia l’evasione unito a un certo genio italico nello schivare le tasse, ha portato negli anni il Governo ad emanare norme che stravolgono il principio dell’innocenza fino a prova contraria.   Di queste le più famose sono quelle che riguardano gli studi di settore e il redditometro. Entrambe si basano sul semplice concetto che in base a determinati parametri il contribuente deve dichiarare un certo reddito. Se ciò accade viene lasciato in pace. Se ciò non accade è onere del contribuente stesso dimostrare il perché di questo fatto. Della serie: sei evasore fino a prova contraria.

Come appare chiaro il tutto si basa su un gioco di presunzioni che solleva lo Stato da qualsiasi onere ispettivo. Si prenda, come esempio, un bar: in base al numero dei tavoli, ai dipendenti, a quanto caffè o luce consuma si stabiliscono quali sono i ricavi che deve dichiarare. Uno degli inghippi, tra i tanti presenti, sta nel fatto che i parametri sono determinati con dati statistici elaborati prima della crisi. Quindi il rischio di non rispettare la presunzione è altissimo: al Fisco nulla importa di ciò, elabora comunque l’accertamento e chiede conto al contribuente di dimostrare perché non è un evasore.  A questo punto il cittadino onesto, che dichiara poco perché incassa poco visto i tempi, si trova a dover fornire una prova spesso diabolica e, pur di non finire nel girone dantesco della cause fiscali, preferisce limitare i danni e transare con il Fisco avvalendosi di quella procedura chiamata, con un certo gusto diplomatico, “accertamento con adesione”, che non è nient’altro che un mercanteggiamento con il Fisco con il solo obiettivo di ridurre i danni, in barba, come ormai è chiaro, al principio costituzionale della capacità contributiva.

Oltre a queste, un’altra norma presuntiva dell’evasione, di recente conio, è quella prevista per le società che hanno tre bilanci di fila in perdita. La tesi del Fisco è semplice: chiudere una serie di bilanci in perdita è un comportamento anti-economico. Non si apre un’azienda per non fare utili, quindi ci troviamo di fronte a ricavi in nero, ergo sei un evasore. Una scappatoia ci sarebbe: farsi autorizzare dal Fisco a chiudere il bilancio in perdita. Quindi, il contribuente ostinatamente onesto, che di questi tempi vorrebbe assai avere bilanci in utile, chiama il Fisco e illustra i motivi del suo comportamento,  sperando che questi siano compresi e accettati.  Se non fa questo, oppure i motivi non vengono riconosciuti come validi,  allora la Legge stabilisce che la perdita conseguita non è rilevante, perché presuntivamente falsa, e le imposte devono, invece, essere calcolate su un reddito stabilito con un criterio meramente matematico, disattendendo la realtà economica dei bilanci. Appare chiaro che questo coacervo di presunzioni di evasione pone a carico delle imprese e dei cittadini l’onere di doversi difendere sostenendo costi, sia legali che di tempo sprecato,  che non verranno quasi mai, in caso di giudizio vittorioso, accollati al Fisco. Ma vi è, se possibile, un accanimento in più. La recente riforma della riscossione stabilisce che il contribuente, destinatario di un accertamento, a prescindere dalle sue ragioni, deve comunque pagare subito una parte della somma contestatagli, pena l’arrivo di Equitalia. Solo successivamente, in caso di vittoria, questa somma gli sarà restituita. Un incubo: lo Stato presume l’evasione, lascia al cittadino l’onere diabolico di dimostrare il contrario e nel frattempo incamera una somma a garanzia di una ragione che sempre non ha!

Molta strada, ahimè, ha da fare questo Paese per arrivare a un rapporto corretto fra contribuente e Stato. E’ vero che i primi a non essere corretti sono i contribuenti stessi. Ma come scriveva Luigi Einaudi, anni orsono, “affinché i contribuenti siano onesti, fa d’uopo anzitutto sia onesto lo Stato. Oggi la frode è provocata dalla legge”.

 * Commercialista