Debito pubblico

 Presente e passato del debito pubblico

Il debito pubblico dell’Italia ….

All’inizio della crisi, nel 2007, l’Italia aveva un debito pubblico di 1.600 miliardi di euro, che rappresentava il 104 per cento del pil  (la ricchezza prodotta dal paese in un anno).  A fine 2016 lo stesso debito è salito a 2.230 miliardi di euro, che corrisponde a circa 35 mila euro pro capite,  neonati compresi, e al 134 % del pil.

Nonostante cambi di Governo, manovre e tagli, più annunciati che fatti, il debito continua ad aumentare. Tra le cause dell’andamento del debito: la recessione, conseguenza della crisi, in parte accentuata da politiche di rigore che invece di contrastarla l’ha alimentata, con la conseguenza  di una perdita di pil, dal 2007 ad oggi, di circa dieci punti; una ripresa debole dell’economia; una certa rigidità della spesa pubblica (salute, scuole, polizia, ecc.) che non si può ridurre più di tanto (ma razionalizzare si); l’incapacità dei governi di ridurre  sprechi e privilegi, ancora abbondantemente presenti (molti i tentativi di rivedere le spese, magri i risultati); l’enorme corruzione ed evasione fiscale che grava come un macigno sulle casse pubbliche (un vantaggio privato per pochi, pagato da tutti i contribuenti).

… quello dell’Europa

In Europa, nel 2015, per entità del debito pubblico rispetto al pil,  l’Italia è preceduta solo dalla Grecia, che è arrivata al 179 per cento, e seguita da tutti gli altri a cominciare da Cipro, con il 109 per cento, e dalla Spagna con il 100 per cento.  La Germania si ferma invece al 71 per cento, ma era al 63 per cento quando scoppiò la crisi (2007).

Il quadro è un po’ diverso se dai dati relativi (debito/pil) si passa alle cifre assolute, dove l’Italia (almeno nell’area euro) è sempre, nel 2015, prima con 2.172 miliardi di euro,  ma seguita da vicino dalla Germania con 2.153 miliardi di euro e dalla Francia con 2.097 miliardi di euro.

Il debito pubblico della Grecia, invece, che ha fatto tanto discutere, in assoluto è “solo” di 312 miliardi di euro. Poco più del 3 % di tutto il debito pubblico dei 18 Paesi dell’area euro, che a fine 2015 aveva raggiunto 9.449 miliardi di euro: il 90 % del pil, quando era al 65 % del pil nel 2007 (Eurostat).

…. e quello del mondo

Se in Europa il debito pubblico in rapporto al pil dell’Italia è il secondo, dopo la Grecia, nel mondo si posiziona al terzo posto, superato dal Giappone, dove ha raggiunto il 248 % (2015). Paese dove ha sfondato, rimanendoci,  la barriera del 200 % già nel 2008.

Anche gli Stati Uniti hanno dovuto pagare pegno alla crisi (tra l’altro procurata dalle speculazioni delle sue banche), come dimostra la crescita del debito pubblico dal 64 % del 2007 al 108 % del 2015.  Ottenendo però, in cambio, una ripresa economica ben superiore a quella europea.

Complessivamente l’intero debito pubblico di tutte le economie del mondo ha raggiunto, nel 2015,  di circa 60 milioni di miliardi di dollari ed è detenuto per il 29% dagli Stati Uniti, il 20% dal Giappone, il 6% dalla Cina, il 4,8% dalla Germania, il 4,5% dall’Italia, il 4,3% dalla Francia, il 2.1% dalla Spagna, lo 0,71% dalla Grecia e meno da tutti gli altri Paesi (World Economic Forum, How does the world’s total sovereign debt break down?  di Bob Bryan, agosto 2015).

Il debito estero, diverso da quello pubblico

Se il debito pubblico è dato dalla differenza tra le entrate e le uscite di uno Stato, quello estero, invece, misura l’esposizione di un paese verso le banche e le istituzioni finanziarie degli altri paesi.  In questi conteggi, per fare un esempio, rientra anche quel terzo di titoli pubblici italiani (BOT, BTP, ecc.) acquistati da risparmiatori esteri, andando il resto a  risparmiatori nazionali.

La somma della quota di debito pubblico estero con quello privato (di banche, imprese, società finanziarie, ecc.) da il debito estero complessivo dell’Italia, che raggiunge circa 1.800 miliardi di euro, l’ottavo più alto al mondo, preceduto da Stati Uniti con 14 mila miliardi di euro, Gran Bretagna 8 mila miliardi, Germania 5 mila miliardi, Francia 4 mila miliardi e Giappone 2 mila miliardi.

In sintesi, il debito pubblico dell’Italia è alto, ma la posizione debitoria complessiva del Paese verso l’estero, sommando debito pubblico (di Stato, Regioni, Comuni, ecc.) e privato, è migliore di quella di tanti paesi della stessa Unione Europea.

Poi, a sorpresa, Il debito totale, pubblico e privato (interno e internazionale),  in rapporto al pil  vede  in testa  l’Irlanda (524% del pil),  il Giappone (450%), la Gran Bretagna (466%), la Spagna (366%), la  Francia (323%), quindi l’Italia (306%…di cui il 113% delle imprese). Dopo l’Italia solo gli USA  (296%) e  Germania (285%).

Il debito non si arresta

Visto l’origine (americana) della crisi del 2007, causata da troppi crediti facili concessi dalla banche ai privati, che spesso non avrebbero avuto titolo, e infatti ad un certo punto non sono più stati in grado di restituirli, ci si sarebbe atteso un maggiore controllo e una diminuzione delle esposizioni debitorie (se c’è troppo debito si cerca di ridurlo) Invece non sta andando così, in parte colpa anche della lenta ripresa economica di troppe economie, rendendo più difficile restituire i prestiti.

La società americana McKinsey, in un report dal titolo “Debt and (not much) deleveraging” (Debito e poca riduzione della leva finanziaria), calcola che a sette anni dallo scoppio della crisi il debito globale nel mondo, cioè quello contratto da imprese, finanza, governi e famiglie,  sia cresciuto di ulteriori 57 milioni di miliardi di dollari e 17 punti di pil, arrivando a toccare, in totale, l’astronomica cifra di  199 milioni di miliardi di dollari (di cui 58 milioni di miliardi del settore pubblico), che corrisponde al 286 % del pil mondiale (era 269% nel 2007 e 246% nel 2000).

Di fatto, il debito, prosegue la sua tendenza ascendente che risale agli anni Ottanta del secolo scorso, che continua fino ai giorni nostri. Qualcuno, per questo, come l’economista Kenneth Rogoff, parla di “super ciclo” del debito che sarebbe il maggior ostacolo alla ripresa dell’economia (e non la debolezza della domanda, come invece altri sostengono).  E’ COMUNQUE FUORI DI DUBBIO CHE L’ECONOMIA SI REGGE SU UNA MONTAGNA DI CARTA CHIAMATA DEBITO.

Goldman Sachs, una banca d’investimento americana, parla addirittura dell’avvicinarsi di una terza fase della crisi (dopo quella dei mutui sub prime in America e del debito pubblico in Europa), che questa volta dovrebbe coinvolgere la Cina (che ha un debito complessivo del 240% del pil) e i Paesi emergenti, a cui sono stati prestati tanti denari a tassi più elevati di quelli praticati nelle economie sviluppate, ma che verrebbero messi in difficoltà da un aumento dei tassi di interesse della Banche centrali (la FED americana ha già iniziato a fine 2015), dopo un lungo periodo di tassi praticamente vicini allo zero, a volte persino negativi.

I debiti non si ripagano con l’austerità

I debiti se regolarmente contratti vanno onorati, ma ci sono diversi modi per farlo. Pretendere pagamenti quasi immediati  o l’applicazione di misure drastiche di tagli e austerità che uccidono l’economia quando, al contrario, dovrebbe essere aiutata a ripartire su basi più sane e competitive, unico modo per riavere indietro i denari prestati, è finora servito solo ad aggravare i problemi ed allontanare le soluzioni. Facendo, per giunta, pagare costi inaccettabili alla popolazione meno abbiente, che è anche la meno colpevole della situazione debitoria in cui si trova un paese. Ha scritto Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, ricordando che fu proprio Keynes ad opporsi, nel 1919, alle misure troppo punitive imposte alla Germania come riparazioni di guerra dal trattato di Versailles, che : “Le misure di austerità non hanno solo aggravato i problemi economici d’Europa, ma hanno mancato anche l’obiettivo dichiarato di ridurre in modo significativo il rapporto tra debito pubblico e pil….Storicamente è stato spesso dimostrato che il modo più efficace di tagliare il deficit è contrastare la recessione e abbinare la riduzione del deficit alla crescita economica” (Rivista Internazionale, 10 luglio 2015). Così è capitato in Svezia tra il 1994 e 1998 e negli Stati Uniti sotto la presidenza Clinton.    Confondere le riforme, necessarie per rilanciare lo sviluppo, con l’austerità è quindi un pessimo abbinamento.

Il debito si può ridurre

L’ex Capo del Governo e Presidente Carlo Azeglio Ciampi aveva promesso la riduzione, entro il 2003, del debito pubblico italiano a meno del 100 % del pil. Di lì a poco però il governo è caduto e chi gli è succeduto non ha mantenuto la promessa.

Ma si può ridurre il debito ?  Certamente, è capitato al Belgio che nell’ultimo ventennio lo ha ridotto dal 140 al 104 % del pil, alla Svezia dal 70 del 1993  al 39 % del pil nel 2013, alla Finlandia dal 57 % del 1994  al  56 % del pil nel 2013 (dopo essere sceso al 33% del pil nel 2008).

Per tornare più indietro nella storia, c’è il caso del Regno Unito che quando, nel 1948, istituì il servizio sanitario nazionale, lasciò salire il rapporto tra debito pubblico e pil al 200%, senza che questo abbia suscitato, all’epoca, particolare apprensione. Nel 2015  lo stesso rapporto è ritornato all’89%.

Anche l’Italia ha saputo ridurlo: dal 117 % del pil nel 1995 al 99,7 % nel 2007, ultimo anno del governo Prodi. Poi è arrivato la crisi, il governo Berlusconi e il debito non ha fatto che peggiorare.

Ha scritto il settimanale inglese The Economist che  “Il problema dell’euro zona non è il debito, ma la sua struttura frammentata. Preso nel suo insieme, lo stock del debito pubblico dell’euro zona (19 Paesi)  è pari al 91% del Pil, quando in America (50 Stati) supera il 110 % del Pil…..Per sopravvivere l’Europa deve diventare  più federale (The Economist, del 26 maggio 2012).  Per l’Europa il problema non è debito, ma la mancanza di una visione comune.

I Governi hanno “manovrato” ma non ridotto il debito

Lo spread  (la differenza tra i rendimenti dei titoli di stato tedeschi e quelli italiani), soprattutto quando aumenta,  è un problema perché ci obbliga a pagare interessi più alti. Interessi sul debito pubblico che costano alle casse pubbliche 81 miliardi di euro l’anno (dato 2014), 1.300 euro per abitante, qualcosa come il 4 % del pil.  Risorse che poi non ci sono per altre necessità.

Fino ad oggi sono state fatte molte manovre economiche (le famose finanziarie), ma una stabile riduzione del debito pubblico, nonostante la caduta dei tassi,  è al di la da venire.   La retorica della “revisione della spesa”, che dovrebbe servire a chiudere qualche buco di bilancio, ha una storia lunga, tanto che i primi propositi risalgono nientemeno che al 1981, cioè 34 anni fa,  quando al governo c’era Forlani, sostenuto dai disciolti partiti Dc-Psi-Psdi-Pri.

La storia del debito italiano

E’ difficile, per non dire impossibile, trovare un Paese che nel corso della sua storia non si sia indebitato. L’Italia ha cominciato a fare debiti nel momento stesso in cui è divenuto uno Stato unitario. Infatti già nel 1861 il suo debito ammontava al 40 % del pil. Poi, tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, è salito al 120 %, quindi è balzato al 160 % durante la prima guerra mondiale, al 100 %  all’inizio della seconda grande guerra, improvvisa discesa al 20 % agli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso,  di nuovo risalita fino al 60 % negli anni ottanta, da dove inizierà una scalata che lo porterà a superare il 120 % nei primi anni novanta (quando la regola europea di Maastricht imponeva il limite del 60%). Il resto è storia recente (Bankitalia, Il debito pubblico dall’Unità ad oggi, ottobre 2008).

I debiti si fanno quando le uscite superano le entrate. Se questo dura per troppo tempo i debiti si accumulano. E’ capitato all’Italia, ma anche agli altri Paesi. Con una differenza: l’Italia non ha speso e non spende più degli altri, ma ha incassato meno (evasione ed elusione) per troppo tempo.

I governi guidati dallo scomparso Craxi (socialista) presero il debito al 65 % del Pil (1983) e lo lasciarono quasi al 90 % (1987).

Il governo a guida Berlusconi lo ha preso, nel 2001, al 105 %, facendolo lievitare, alla fine del mandato, nel 2011, di dodici  punti, portandolo cioè al 117 %. In valore assoluto il debito, sotto il governo di Berlusconi, è salito da 1.350 miliardi (2002)  di euro a 1.900 miliardi di euro dell’autunno 2011, con un aumento del 40 % per cento.

Più di un terzo (in alcuni momenti è arrivato anche alla metà) del debito pubblico italiano è detenuto da investitori stranieri (in genere fondi e grosse istituzioni finanziarie), ed è questa la ragione sostanziale della crisi del debito (capita quando i non residenti vendono, facendo scendere il prezzo dei titoli di stato e spingendo in alto i tassi di interesse, perché non hanno più fiducia che il Governo in carica possa restituirgli il denaro prestato).  La componente estera del debito pubblico delle altre nazioni è anche maggiore (USA e Germania intorno al 50 %, Francia 57, Olanda 67) ma il loro debito è ritenuto più sostenibile e meno a rischio.  Il problema è che nonostante le manovre economiche a ripetizione il debito italiano continua a crescere, in rapporto al Pil e in valore assoluto. Ogni punto in più di interesse da pagare agli investitori vale  circa 20 miliardi di euro, spalmati in sette-otto anni (mano a mano che i vecchi titoli scadono e vengono rinnovati con nuove emissioni).

In termini pro capite vuol dire che il debito pubblico di ciascun italiano, neonati compresi, è salito da 23 mila euro del 2001 a circa 35 mila euro nel 2016. Un bel regalo per le generazioni future: senza lavoro e già indebitate. Si può pagare un debito così grande ? Certamente. Come ? Come fa un’azienda o una famiglia, tagliando le spese inutili, o non indispensabili, e improduttive, razionalizzando l’organizzazione e cercando nuove fonti di attività e di reddito. Cioè facendo crescere l’economia. Perché senza ripresa dello sviluppo il peso del debito e degli interessi diverrà ancora più insostenibile.

La questione del debito pubblico nella storia

Sul debito pubblico nel Regno Unito e in Francia nel corso dei secoli interviene Thomas Piketty  con un capitolo del suo volume Il capitale nel XXI secolo, pag.193 (Bompiani ed.): “Cominciano con il Regno Unico. Per due volte, la prima dopo le guerre napoleoniche e la seconda dopo la seconda guerra mondiale, il debito pubblico britannico ha raggiunto livelli molto elevati, circa il 200% del pil … (la prima volta, nel 1810) sarà necessario oltre un secolo di bilanci in attivo per ridurre progressivamente l’indebitamento, all’inizio del XX secolo, a meno del 30% del reddito nazionale”. Nel 1950, per sostenere lo sforzo bellico, il debito pubblico britannico risale di nuovo al 220% del pil…e ridiscenderà al 50% solo grazie al contributo dell’inflazione, che consentirà di rimborsare i prestiti con denaro svalutato.

Anche il debito pubblico francese è salito, una prima volta. dal 50 al 100% del reddito nazionale tra il 1700 e il 1770, e una seconda volta, dopo la guerra franco-prussiana, tra il 1880 e il 1914, tornando al 70-80% del reddito nazionale. Anche in questo caso ci sarà l’inflazione (in media del 13% l’anno tra il 1913 e il 1950, poi del 50% tra il 1945 e il 1948) a dare una mano.

Nella Francia del XVIII secolo, durante la Rivoluzione, i beni della chiesa, che valevano il 50-60% del reddito nazionale dell’epoca, furono in parte confiscati e venduti proprio per pagare i debiti pubblici lasciati dall’ancien regime  (Piketty, pag. 279)

Il caso Italia. Negli anni settanta del secolo scorso, il patrimonio (la ricchezza posseduta) pubblico netto era leggermente positivo, cominciò a diventare negativo dagli anni ottanta e novanta, in seguito all’accumularsi di enormi deficit pubblici. Risultato: tra il 1970 e il 2010, la ricchezza pubblica è diminuita dell’equivalente di circa una annualità di reddito nazionale, mentre, nello stesso periodo, i patrimoni privati sono aumentati da appena due annualità e mezza di reddito nazionale nel 1970,  a quasi sette annualità nel 2010, con una crescita di quattro annualità e mezza …..Anziché pagare le tasse per equilibrare i bilanci pubblici, gli italiani hanno prestato denaro al governo acquistando buoni del tesoro o attivi pubblici, incrementando così il loro patrimonio privato, a detrimento di quello nazionale (Piketty,  pag. 281-282)

Perché il debito pubblico frena lo sviluppo

Ci sono diverse ragioni per cui un debito pubblico eccessivo non favorisce la crescita dell’economia. La prima, molto evidente, riguarda il pagamento degli interessi: per l’Italia sono 70-80 miliardi di euro l’anno, circa il 4% del pil (ma quando i tassi risalgono gli importi aumentano), di cui una fetta se ne vanno all’estero, che potrebbero essere impiegati altrove, magari nella scuola, nella ricerca, ecc.  Legato a questo c’è un secondo problema: per finanziare il debito bisogna convincere i risparmiatori, italiani e stranieri,  a prestare denaro, e  questo lo si fa offrendo tassi di interessi appetibili.  Così, se le imprese vogliono chiedere denaro al mercato,  devono entrare in concorrenza con lo Stato e non possono essere da meno in quanto alla remunerazione da offrire.  Se poi l’effetto è un rialzo dei tassi di interesse le imprese investiranno meno e i consumatori ridurranno gli acquisiti.

Anche la qualità, cioè le ragioni,  del debito ha la sua importanza: se questo viene fatto per finanziare investimenti che migliorano la produttività dell’intero Paese, aiutando l’economia a crescere, si ripagherà con le maggiori entrate fiscali future. Non sarà così se invece verrà destinato alle spese correnti, cioè di funzionamento (stipendi, consumi, ecc.).

La reazione al debito, oltre all’aumento delle tasse, spesso porta al taglio delle spese. Ora se si tagliano gli sprechi e le spese poco utili è un conto, se invece si colpiscono la ricerca, l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, fisiche e immateriali, insomma tutto quello che serve a recuperare produttività e competitività, non si fa altro che peggiorare la situazione senza dare al paese nessuna possibilità di riprendersi.

(Ultimo aggiornamento del 20 gennaio 2017)

 Il debito pubblico dell’Italia 1995-2015

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