Gestione risparmio

Spagna: comprare titoli di stato (Bot, Btp, ecc.) ha reso, negli ultimi 20 anni, più che investire in borsa  (marzo 2021)

Secondo elaborazioni di Credit Suisse, tra il 2000 e 2020, i titoli di stato spagnoli hanno reso una media annuale del 5,6%, ben al di sopra del 2,6% degli investimenti in borsa.

Più simile il rendimento in un periodo più lungo (dal 1971 al 2020): 4% i titoli di stato, 3,5% gli investimenti in borsa.

Per vedere la borsa rendere più dei titoli di stato bisogna prendere un periodo superiore ad un secolo. Infatti, dal 1900, le azioni spagnole hanno reso il 3,5% annuale, a fronte del 2,1% di buoni di stato.

In breve: non fidarsi troppo di rendimenti stratosferici che spesso, quando capita, vengono promessi. Non sono realistici.

I BOT continuano a rendere più dei Fondi  (ottobre 2017)

Ci risiamo. Ancora una volta ci troviamo a commentare il fatto che  nel medio-lungo periodo i bistrattati BOT emessi dallo Stato italiano rendono  più dei tanto reclamizzati Fondi di investimento. Non lo dice un consulente interessato,  ma l’Ufficio Studi Mediobanca nella sua XXVI  indagine sull’argomento, pubblicata di recente, che prende in considerazione 1179  Fondi di diritto italiano alla fine del 2016 (documento scaricabile su: www.mbres.it).

Veniamo al dettaglio. Scrive il citato rapporto: “dopo 9 anni in rosso dal 2003 al 2012, le sottoscrizioni dei fondi italiani hanno superato i riscatti per il quarto anno consecutivo, consolidando l’inversione di tendenza manifestata nei tre anni precedenti.  Nel 2016 la raccolta netta è stata positiva (cioè i riscatti sono stati meno delle nuove sottoscrizioni)  per circa 8 miliardi di euro. Il ridimensionamento dell’industria (ora sedicesima nel contesto internazionale; era quarta nel 2004) si traduce in una incidenza dei patrimoni gestiti sul PIL pari al 15% contro il 42% nel 1999.  In questo, l’Italia appare in forte controtendenza rispetto all’Europa…Il  rendimento netto medio di tutti i fondi  è valutabile all’1,3% (era stato 1,6%  l’anno prima), beneficiando della performance dei fondi bilanciati (1,8%), azionari (1,6%) e obbligazionari (1,5%), come pure dei fondi pensione, sia negoziali (2,6%) che aperti (2,2%); i fondi flessibili si sono fermati allo 0,5%, con i fondi di mercato monetario in pur lieve negativo (-0,2%)”.

Per un confronto si tenga presente che nell’ultima asta di settembre 2017, i BTP dello Stato italiano a dieci anni sono stati venduti con un rendimento lordo dello  0,83 %.

I rendimenti, prosegue il citato Rapporto, in un’ottica di lungo periodo sono ancora insoddisfacenti; il risparmiatore che avesse investito in tutti i fondi comuni aperti italiani negli ultimi 33 anni avrebbe subito, rispetto ad un impiego annuale in BOT a 12 mesi, una perdita di valore di poco inferiore a una volta il patrimonio iniziale  (che è aumentato  di 5 volte con i BOT, ma solo di 4,2 volte con i fondi). Una perdita valutabile in circa  39 miliardi di euro solo nell’ultimo quindicennio.

La situazione non cambia se si prendono i rendimenti annui netti gli ultimi 15 anni:  BOT a 12 mesi hanno reso il 2,0 %; i fondi l’1,5%.

Lapidaria la conclusione del Rapporto: l’industria dei fondi continua a rappresentare – in un orizzonte temporale di lungo periodo – un elemento distruttivo di ricchezza per l’economia del Paese.

Per avere meno i risparmiatori italiani devono però spendere di più. E’ vero che i costi di gestione sono scesi all’1,2% del patrimonio (erano l’1,3% nel 2015),  con punte del 2,2% nel comparto azionario, ma restano sempre tre volte e mezzo il costo dei fondi USA.

A far lievitare i costi probabilmente c’è la vorticosa rotazione del portafoglio, cioè il rinnovo dei titoli del fondo, che in Italia avviene ogni 11 mesi, quando in America si fa ogni tre anni.   Rotazione del portafoglio che non produce valore, ma in compenso viene scaricato, alzando i costi, sugli ignari risparmiatori.

Ultima, non meno importante: i fondi italiani non brillano nemmeno per trasparenza,  se è vero i gestori italiani hanno spostato all’estero – principalmente in Lussemburgo –  il 59% del patrimonio gestito (erano il 38% appena 8 anni prima).

I Fondi e la “cedola certa”  (Marzo 2017)

 Un tempo, se avevi qualche risparmio potevi  prestarlo allo Stato (meno rischioso) o alle imprese (più rischioso) e prenderci qualcosa.  Di norma il tasso di interesse segue la logica della domanda e dell’offerta: se il risparmio disponibile è poco e la domanda di denaro alta (da impiegare per investimenti, comprare case, auto, ecc.)  l’interesse sale, e viceversa.

Poi, nel 2007 è arrivata la crisi, frutto delle spericolate speculazioni delle banche, ed il panorama è cambiato. Le Banche centrali, compresa la Banca Centrale Europea (BCE), si sono messi a stampare biglietti a ritmo forsennato, inondando il mercato (leggi: banche, ed ultimamente anche le imprese) di denaro. Oggi ce n’è così tanto  che gli interessi sono scesi a zero e qualche volta anche sotto, cioè è il risparmiatore che deve pagare la banca per depositare il suo denaro. Un paradosso, ma è così.  E’ come affittare una casa e pagare, invece di essere pagato, l’inquilino per starci.

Se gli investimenti più sicuri (titoli di stato, buoni fruttiferi postali, ecc.) non rendono niente,  le praterie per i venditori di illusioni  diventano sterminate.  I giornali, tra articoli interessati ed inserzioni a pagamento, ne sono pieni.  Ma attenti, perché i miracoli sono una merce rara ed è più facile di quanto si creda ritrovarsi con un pugno di mosche e perdere tutto.

Prendiamo i Fondi con cedola  certa, che apparentemente sembrano offrire una qualche sicurezza. Appunto: una cedola, cioè un rendimento,  certo.  Facciamo un esempio: investo 100 e la cedola promessa è del 2 per cento. Stante gli annunci, alla fine dell’anno mi attendo il versamento sul conto di 2 euro di interesse. Ma attenti, perché nei regolamenti, in genere le parti scritte in piccolo che nessuno legge, si può trovare l’inganno: che consiste, se le cose per il gestore non vanno bene, di prelevare la cedola dal capitale investito.  Cioè dai vostri 100 euro di partenza, che così diventano 98.  Se questo gioco si protrae  per cinque anni, ed ogni anno prelevano dal vostro capitale 2 euro facendovi credere che è l’interesse, che invece non è,  alla fine non ne riotterrete indietro  100, bensì 90 (100-10=90).  E’ una truffa ? Certo, ma è tutto legale, perché era previsto dal regolamento.  Un fenomeno e un sistema che riguarda un terzo circa dei fondi comuni con cedola in circolazione (Baglioni-Foà di Lavoceinfo) .  Inutile dire che Banca d’Italia e Consob, i vigilanti delle banche e del mercato, hanno approvato il regolamento.

Ma non è finita: perché appena vi avvicinate ad un Fondo, dovete subito pagare una “commissione di collocamento”, un tempo chiamata di sottoscrizione,  che è diversa da quella di gestione, che viene dopo, anche se i risultati sono negativi.  Anche qui con poca o nessuna trasparenza. Perché la commissione viene prelevata, ma a rate, in piccole dosi e sempre dal capitale investito. Così se la commissione di collocamento è del 3 per cento, ed avete sempre investito 100, alla fine, solo per questo, ve ne ritrovate  97.  Poi se uscite dal Fondo prima della scadenza, c’è la commissione di uscita.  In tutto è stato calcolato che le commissioni applicate sui fondi gestiti in Italia sono mediamente il 40 per cento più alte di quelle richieste negli altri paesi europei.

Insomma, si rischia di rimetterci…anche se le promesse erano per una cedola “certa”.  Ma è sempre nei dettagli che si nasconde l’imbroglio.

La Costituzione,  all’articolo 47,  prevede la tutela del risparmio, ma poi i regolamenti  consentono il contrario.

Obbligazioni subordinate: rischio in agguato (gennaio 2016)

Nei fogli sottoscritti (il famoso profilo di rischio, fatto di numerosi fogli, che tutti firmiamo in banca senza leggere, in pratica sulla fiducia, anche perché di non facile comprensione) c’era scritto “rischio medio-basso”, “ci siamo fidati del direttore di banca, è un investimento sicuro diceva..”, “mi fido di quello che mi dicono le persone allo sportello” , sono solo alcune delle reazioni alla perdita dei propri risparmi, risultato del fallimento di quattro banche: Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti e Cari-Ferrara.

Dove avevano investito, certamente su consiglio dei funzionari di banca, molti dei quali colpiti anche loro per aver sottoscritto, non senza pressioni dall’alto, gli stessi titoli,  i risparmiatori danneggiati ? Nelle obbligazioni subordinate, altrimenti dette anche “junior”, per distinguerle da quelle non subordinate, altrimenti denominate “senior”.  Con le prime di prende un po’ di più (si è parlato di un tasso lordo tra 3,5 e 5 %, in un periodo in cui un Btp a dieci anni  ha un rendimento lordo di 1,36%)  ma il rischio, come si è visto,  è anche maggiore.  Ma cosa sono e perché sono diverse dalle “normali” obbligazioni ?

Le obbligazioni subordinate sono titoli emessi, in questo caso, dalle banche in questione, in altre occasioni da aziende, a rischio elevato perché, in caso di dissesto, il loro rimborso viene dopo tutti gli altri creditori, come obbligazionisti ordinari, depositanti e fisco. Se alla fine non resta niente, si perde tutto. In questo senso sono molto simili alle azioni. Quindi non a rischio medio-basso,  ma piuttosto medio-alto.

In particolare, scrive Soldionline, “il rischio di credito è elevatissimo per le obbligazioni di tipo Tier 1 e per alcuni Upper Tier 2, che possono prevedere la cancellazione delle cedole e di parte del capitale, senza che si debba giungere ad una vera e propria insolvenza dell’emittente”.

Molte obbligazioni subordinate non hanno una vera e propria data di scadenza, ma l’emittente può richiamarle, quindi rimborsarle in anticipo, in certe date  (in gergo: opzione “call”).  Senza nessun obbligo, però, anche se potrebbero farlo.

In altri casi, le banche pur salvate dall’intervento pubblico, come è capitato ad istituti inglesi e tedeschi, i sottoscrittori di obbligazioni subordinate hanno perso tutto lo stesso.

Questo della data di scadenza è molto importante, perché senza  sapere quando un titolo sarà rimborsato  è molto difficile calcolare il rendimento dell’investimento e il rischio diventa molto grande.  In questo caso bisogna essere consapevoli di fare un in vestimento, come per l’acquisto di azioni, a lungo termine.

Un secondo aspetto di cui tenere conto, un po’ legato al primo, riguarda la liquidità, cioè la possibilità di vendere le obbligazioni subordinate acquistate. Siccome ogni emissione ha caratteristiche proprie, quindi non sono tutte uguali, il mercato è ristretto e a volte, soprattutto in periodi di incertezza,  può perfino non esistere. E se nessuno compra, non si può nemmeno vendere, per rientrare in possesso dei propri denari.

Ma i bond subordinati non sono tutti uguali e ne esistono almeno 4 distinte tipologie:  Tier 1, Upper Tier 2,  Lower Tier 2 e  Tier 3.    La loro rischiosità è, per così dire, decrescente.  Tutti sono comunque rimborsabili, in quanto comunque subordinati, solo dopo le obbligazioni ordinarie  “senior”.

Occhio al “bail in(dicembre 2015)

Intanto che cos’è il bail in ?   E’ la nuova regola, di derivazione europea, sui fallimenti bancari che andrà in vigore dal 2016. Vuol dire che in caso di dissesto di una banca, l’autorità (la Banca d’Italia per le banche minori tipo le BCC, il nuovissimo Single Resolution Board, con sede a Bruxelles, per le banche maggiori e i gruppi transnazionali con sedi nell’Eurozona) potrà decidere se farla fallire e liquidarla (in Italia, mediante la procedura di liquidazione coatta), oppure  assoggettarla a “risoluzione”, cioè provare a salvarla.   Non scompaiono definitivamente i salvataggi pubblici, ma diventano l’ultima ed estrema soluzione, quando tutto il resto non è bastato.

Strumento principe della risoluzione è il bail-in, ovvero il salvataggio interno. Che significa una cosa molto semplice: prima di fare ricorso alle risorse pubbliche per salvare la banca  (come in pratica è avvenuto fino ad oggi) saranno chiamati a partecipare al salvataggio anche gli azionisti e i creditori, cioè quanti detengono obbligazioni della banca in questione (a cominciare da quelli subordinati, come è capitato per le quattro banche locali salvate nel novembre 2015), nonché  i correntisti  per i depositi sul conto corrente superiori a 100 mila euro (quelli sotto sono garantiti).  Per i  conti cointestati è da intendersi cento mila euro per cointestatario.

Questo vuol dire una cosa molto semplice: che prima  di acquistare azioni o obbligazioni di una banca, ma anche per depositare i propri risparmi, bisogna guardare bene ai suoi bilanci. Non solo. Perché se la banca salta, spariscono anche i risparmi e gli euro del conto (sopra i cento mila).

E’ giusto così, perché far pagare alla collettività, cioè a tutti noi,  le perdite dei cattivi maneggi non è nemmeno questa una buona soluzione. Soprattutto non responsabilizza dirigenza e soci.  Ma questo richiede che il risparmiatore, per non correre rischi, sia messo nella condizione di essere informato e valutare lo stato della banca con cui intende operare.

Una pretesa e una condizione che si scontra con la scarsa educazione finanziaria degli italiani, la metà dei quali, stando ad una indagine della Banca d’Italia, non è in grado di distinguere tra una azione e una obbligazione, e appena la metà sa leggere l’estratto conto che gli invia la banca.

Non va meglio con i giovani studenti italiani, che non brillano per competenze matematiche e sono risultati agli ultimi posti Ocse (l’Organizzazione dei paesi più sviluppati) per cultura finanziaria.

Sarà pur vero che con il  bail-in  nessun  azionista o creditore della banca subisce perdite maggiori di quelle che subirebbe con il suo fallimento e che i depositi  sopra di 100 mila euro  verrebbero toccati  dopo gli altri creditori e solo in caso di scenari catastrofici, ma tutto ciò non elimina  la necessità di un pubblico informato sui potenziali rischi che corre.   Anche come antidoto al sentore di gestioni allegre (da cui alcune banche di Rimini non sono risultate esenti).  In Italia ci sono state banche in difficoltà, ma per fortuna nessuna ha chiuso, però non è andata così in altri paesi , come sanno bene gli azionisti e depositanti della banca americana Lehman Brothers, fallita nel settembre 2008, che ha scatenato la crisi da cui stiamo timidamente risalendo.  Poi c’è sempre il ricordo dei bond argentini venduti senza far sapere i rischi connessi, che non hanno portato a piacevoli risvegli.

Lo strano comportamento dei Fondi pensione (ottobre 2015)

Lo sappiamo, un tempo per la pensione bastava affidarsi ai versamenti dell’Inps, poi le cose sono cambiate, la popolazione è invecchiata, il lavoro è diventato sempre più intermittente, quindi il rischio, soprattutto per le giovani generazioni, è di ritrovarsi, da anziani, con pensioni molto  leggere, per tanti al limite della sopravvivenza.  Si stima che nel prossimo ventennio la pensione media si ridurrà sempre più rispetto al salario medio, passando dall’attuale 45 al 33 per cento nel 2036. Sembra lontano, ma non troppo.  Ecco quindi spuntare i Fondi pensione, che dovrebbero, con i loro rendimenti, costituire una entrata complementare alla pensione dell’Inps maturata (che oggi dipende dai contributi effettivamente versati).

In Italia ci sono tre tipi di pensione “privata”: quella affidata a un fondo di categoria, previsto dai contratti nazionali e cogestito da imprese e sindacati (“fondi negoziali”); quella affidata ai “fondi aperti”, creati da banche, assicurazioni e altre entità finanziarie; e le polizze assicurative con finalità previdenziali (“Pip”), ad adesione individuale. L’anno scorso c’è stato un  incremento della previdenza privata, ma non di quella negoziale, che ha pure perso qualcosa.

Una circostanza su cui riflettere è che, da diversi anni, i fondi pensione negoziali – pur usufruendo della contribuzione aziendale e di costi minori – vedono ridursi il numero degli iscritti mentre aumentano le adesioni ai fondi aperti e a quelli individuali che non hanno quei vantaggi.

Nel complesso, comunque, il totale dei lavoratori italiani iscritti a qualche fondo pensione o ad assicurazioni individuali sono il 27,7 per cento del totale: ancora lontani dall’obiettivo della riforma Dini (che voleva portare nel pilastro privato delle pensioni il 40 per cento dei lavoratori).

Come mai c’è chi sale e chi scende ?  Pare, stando al  Rapporto sullo stato sociale 2015 curato dall’economista Felice Roberto Pizzuti, che ciò non dipenda tanto dai rendimenti ottenuti dalle varie gestioni, più o meno equivalenti, ma soprattutto dai costi di gestione, che chi sottoscrive non sempre conosce e i gestori si guardano bene da rendere noti, questi si molto diversi (per esempio, pochi sanno della commissione di incentivo o di performance che funziona così: se un mese il fondo fa faville il gestore si prende una lauta commissione, ma se il mese dopo crolla, non la deve restituire0).  Che i gestori dei Fondi italiani si ritaglino buone commissioni è già emerso nel passato e vuol dire che nulla è cambiato.

Tanto che è dovuta intervenire perfino la Consob, l’Autorità di vigilanza dei mercati finanziari la quale,  in un comunicato diramato il 13 luglio scorso, richiama i Fondi ad “anteporre l’interesse del cliente a quello degli intermediari”, anche nel rispetto della normativa europea  Mifid  che disciplina la prestazione dei servizi di investimento.

Ma non è tutto. Infatti, dove investono i Fondi  i risparmi dei lavoratori e delle lavoratrici italiane ?

Il 70 per cento all’estero e solo lo 0,8 per cento in acquisti di azioni nazionali. La cosa è particolarmente clamorosa per i fondi negoziali, nei cui consigli siedono rappresentanti di quelli che dovrebbero difendere il lavoro e le imprese in Italia: viene fuori che solo l’1 per cento del loro patrimonio va a capitale azionario italiano.

Non va meglio ai titoli pubblici nazionali: l’investimento in titoli di debito dello stato italiano è, per i fondi negoziali, di appena il 29 per cento (meno della metà rispetto a prima della crisi). Fanno un po’ meglio i fondi aperti, che investono quasi la metà del loro portafoglio titoli in Italia, e, quanto alle azioni, l’8,4 per cento.

Questo comportamento stride con le promesse legate all’avvio della previdenza complementare – che doveva anche rilanciare la borsa italiana, si disse – e con il fatto che, come ha certificato di recente anche la Banca d’Italia, il principale ostacolo alla ripresa è adesso proprio la carenza di investimenti.

Da qui la proposta, lanciata dal citato Rapporto, di portare fondi e assicurazioni a investire almeno in Italia, in modalità sicuramente più trasparenti e controllabili.

Attualmente le simulazioni dei Fondi (quelle che presentano ai clienti quando vanno a firmare un contratto) si basano sull’ipotesi che in media i titoli pubblici renderanno il 2 per cento e le azioni il 4 per cento: ipotesi ritenute decisamente ottimistiche, ma accettate dall’autorità che controlla il settore, la Covip, come normale.

Il tasso non è tutto  (Marzo 2015)

I rendimenti dei titoli pubblici sono scesi così in basso che bisogna investire a quindici anni per ottenere un interesse che si avvicini al due per cento.  Questo è bene per lo Stato, che così per il suo debito spende meno di interessi, ma non è una buona notizia per i risparmiatori che investono in titolo pubblici perché ricavano sempre meno.

Cambierà nel futuro prossimo ?  Non nella direzione sperata (cioè un rialzo dei tassi), anzi qualche commentatore prefigura tassi di interesse negativi. Vuol dire che lasciare i soldi in banca o prestarli allo Stato, comprando Bot, Btp, ecc., non solo non renderà niente, ma si perderà pure qualcosa. Sta già capitando con i titoli governativi americani, giapponesi e perfino tedeschi.  Quando la Banca Centrale Europea, come annunciato, comincerà a comprare, stampando moneta, titoli di stato (di tutti gli Stati),  i rendimenti inevitabilmente scenderanno (perché quando c’è richiesta i prezzi dei titoli crescono, di conseguenza i rendimenti calano), senza escludere che possano diventare negativi. Vuol dire rimetterci, invece di guadagnare.

Un po’ è una situazione voluta. Se banche e titoli di stato danno  poco, addirittura niente, i risparmiatori cominceranno a rivolgersi altrove, ad attività più rischiose, tipo le azioni, ma non solo. Vista la scarsa cultura finanziaria media degli italiani la cautela, nelle decisioni, deve essere massima.

Nel mercato azionario ci sono titoli che vanno bene, ma tanti che perdono. Nel 2014 l’indice di Borsa per  le società a media capitalizzazione (il Mid-Cap) ha chiuso con meno 3,86 per cento.

Non troppo tempo addietro qualche risparmiatore è rimasto scottato per aver comprato uno strumento finanziario (una obbligazione bancaria) che tecnicamente si definisce “subordinato ibrido con premio al rimborso convertibile in azioni ordinarie”  Conosceva, il risparmiatore, il significato di questa espressione? Si è preoccupato di chiederla alla banca? Ha letto per intero il contratto o ha visto il tasso e tanto basta: fra dieci anni ne parliamo?  Probabilmente si è fidato di sapere solo qu

COSA SONO LE OBBLIGAZIONI IBRIDE

Apparse nel mercato italiano nel 2006, sono strumenti innovativi che a seconda delle emissioni possono avere caratteristiche molto differenti tra di loro. La maggior flessibilità dei bond ibridi pone questo gruppo di strumenti quasi a metà strada tra il debito puro e il capitale di rischio (azionario).

Solitamente le caratteristiche ricorrenti riguardano:

Subordinazione – il titolo è subordinato a tutte le altre emissioni obbligazionarie della società. Questo significa che in caso di bancarotta i possessori di questi strumenti verranno rimborsati solo se tutti gli altri obbligazionisti avranno già ricevuto ciò che spettava loro, ma prima degli azionisti.

Durata – solitamente è molto elevata, ultradecennale ed in alcuni casi può coincidere con la vita dell’azienda; in tale caso si tratta di bond perpetui e sono estremamente simili alle azioni.

Clausola call – l’emittente ha la possibilità di rimborsare in anticipo il prestito. Solitamente se non viene esercitato questo diritto è previsto un aumento della cedola (clausola step-up).

Interest deferral – l’emittente può rinviare il pagamento di una o più cedole al verificarsi di determinati accadimenti. Questi possono riguardare la mancanza di distribuzione di dividendi da parte della società, oppure utili di esercizio negativi, o un Ebit inferiore a un certo livello. I pagamenti sospesi possono in taluni casi essere onorati grazie ai proventi derivanti dal collocamento di nuove azioni o di nuovi ibridi anche simili a quelli già sul mercato. Talune emissioni danno addirittura la possibilità di saltare completamente il pagamento di una cedola se i conti della società non sono buoni.

Gestire i risparmi in alternativa al conto corrente  (gennaio 2015)

di Domenico Chiericozzi

Tra fine e inizio anno è d’obbligo fare il punto della situazione sullo stato di salute del proprio risparmio. Una sorta di tagliando. Questioni importanti in cui è di fondamentale importanza il supporto e un dialogo alla pari con il proprio intermediario finanziario che ha un duplice ruolo: informare e assistere nel tempo i propri clienti. A maggior ragione da quando i tassi di interesse sono a zero e per guadagnare qualche punto percentuale senza correre eccessivi rischi serve un approccio estremamente professionale. Che cosa fare quindi con i propri risparmi in alternativa al conto corrente o altre attività a breve termine?

 Con questo primo articolo Tre si propone di coinvolgere periodicamente le banche ed i loro esperti per capire quali strategie e quali consigli offrono una volta definito il profilo di rischio di chi investe. Un argomento verso il quale registriamo un forte interesse da parte dei risparmiatori anche) per effetto del tramonto dell’investimento rifugio per eccellenza, quello “nel mattone”.

Abbiamo quindi rivolto alcune domande “preliminari” agli istituti di credito locali, alle banche cioè che hanno sede legale sul territorio con consigli di amministrazione “nostrani” , con l’obiettivo di approfondire ulteriormente i vari argomenti: Cassa di Risparmio di Rimini, Banca Popolare Valconca (che però in questa prima occasione non hanno fornito le risposte), Banca di Rimini, Banca Malatestiana e Banca Valmarecchia. La cifra complessivamente investita non è irrilevante. Parliamo di complessivi di 880 milioni di euro usciti dai conti correnti dei rispettivi proprietari di queste tre banche che sono poi confluiti nei vari strumenti finanziari.

Prima di tutto uno sguardo generale.

Vediamo quali sono stati nel 2014 gli strumenti maggiormente collocati e con quale proporzione tra risparmio gestito  (affidato a società esterne specializzate interne o esterne alla banca) e amministrato (servizio di deposito titoli).

Per Banca di Rimini,  raccolta totale di 775 milioni di euro, nel cui “forziere” sono ci sono circa 155 milioni di euro di investimenti per conto della clientela, la raccolta diretta è andata prevalentemente in prestiti obbligazionari mentre per quella indiretta in fondi comuni, anche tramite piani di accumulo, Sicav e polizze assicurative con una proporzione tra gestito e amministrato all’80% nel primo caso e 20% nel secondo

In Banca Malatestiana sono oltre 600 milioni di euro le masse gestite. L’istituto nato nel 2002 dalla fusione di altre banche di credito cooperativo locali, al primo posto tra i prodotti “preferiti” cita quelli di liquidità (conti deposito), seguono risparmio gestito, strumenti obbligazionari e polizze assicurative legate a gestioni separate con una proporzione opposta alla precedente: 80% in depositi amministrati e 20% in risparmio gestito.

I prestiti obbligazionari tornano al primo posto (39% della raccolta) per l’istituto Valmarecchia che vanta investimenti dei clienti per circa 125 milioni di euro; seguono i fondi comuni (22,5%), polizze assicurative e fondi pensione (7,9%) e le gestioni patrimoniali mobiliari (1,5%). Unica realtà, tra le intervistate, che mostra dati più bilanciati tra risparmio gestito e amministrato: 32% contro il 68% del “fai da te” della banca.Il secondo tema che abbiamo posto alle banche, è solo apparentemente teorico, ovvero “come” i clienti possono costruire i loro investimenti e in che modo e con chi il cliente ne condivide le decisioni.

Negli ultimi anni, il livello di discrezionalità degli intermediari si è ampiamente ridotto e le normative impongono regole ferree per misurare la “propensione al rischio” del cliente.

Banca di Rimini dichiara di avere consulenti dedicati in ogni filiale. La prassi – dicono dalla sede di via Garibaldi – prevede che i clienti siano “intervistati” e che sulla base di quanto emerge si proceda a sottoscrivere “strumenti diversificati pertinenti”.

Anche Banca Malatestiana conferma la medesima impostazione. Le informazioni sul profilo di rischio e gli obiettivi di investimento sono raccolti su un questionario che è sottoscritto dal cliente stesso. Una sintesi delle due posizione è espressa anche da banca Valmarecchia.

Un esempio concreto

Vediamo come se la sono cavata le banche su un caso concreto.  Una famiglia, marito moglie e due figli appena iscritti all’università. Hanno a disposizione 20 mila euro di risparmio e una quota di nuovo risparmio pari a 300 euro al mese. Imprevisti a parte, tali somme non dovrebbero servire per i prossimi 24-36 mesi. La propensione al rischio è media.

Cosa fare nel 2015?

Per Banca di Rimini “due – tre anni sono un orizzonte temporale troppo breve per una pianificazione adeguata per la somma” indicata. Il modo “migliore” sarebbe uno strumento monetario, anche per accumulare il nuovo risparmio, o “meglio ancora” depositi bancari diretti (conti deposito-depositi a risparmio).

Una risposta che ci sentiamo di criticare perchè il cliente comunque dichiara di essere disposto a cavalcare un po’ di rischio. Pertanto una certa quota di investimento azionario, magari con un piano di accumulo) appare adeguato.

La prevede, ad esempio, Banca Malatestiana che “alla luce dell’attuale andamento dei tassi e delle previsioni di evoluzione degli stessi” opta come Banca di Rimini ad “adottare soluzioni a tasso variabile meglio ancora se ancorate all’inflazione e a tasso fisso con scadenze molto corte, per attenuare quello che è il potenziale rischio tasso”. Sono possibili – spiega la banca con sede a Palazzo Ghetti, anche logiche di flessibilità gestita, con attività azionarie che non superino 15-20% del capitale investito. Occorre naturalmente prestare molta attenzione – avverte la banca – all’impegno economico generato dall’attività di studio dei figli.

Va decisamente “oltre” banca Valmarecchia che preferisce un fondo comune bilanciato in un’unica soluzione che, secondo la tipologia in base alla classificazione Assogestioni, può arrivare a investire in azioni da un minimo del dieci ad un massimo del 90%.

Il tema più spinoso

Le questioni si complicano quando si chiede di elaborare portafogli d’investimento sulla base di previsioni. Forte degli 800 fondi collocati 15 società, Banca di Rimini precisa che “non esiste un  prodotto più consigliabile di altri” e che solo “miscele diverse” possono offrire risposte “giuste”. Quello che consigliano, dicono, una corretta pianificazione e una diversificazione su mercati globali che possono contenere le oscillazioni del controvalore del proprio risparmio (volatilità). Banca Valmarecchia, su questo, non si esprime mentre Banca Malatestiana riferisce dettagliatamente le proprie strategie. “La banca propone strumenti di risparmio gestito che possano essere difensivi nei confronti di un potenziale aumento dei tassi, utilizzando anche prodotti legati all’inflazione. Ai clienti con profili di rischio più elevato ed obiettivi di crescita del capitale, sono proposti strumenti di risparmio gestito obbligazionari a tasso fisso con elevata diversificazione (investimenti in obbligazioni corporate e governative) con un obiettivo di rendimento superiore a quello offerto dai titoli di stato a tasso fisso di almeno 1 – 1,5 punti percentuali. Un’ulteriore opportunità è data dalla definizione di un’asset allocation ben strutturata composta da strumenti obbligazionari e piccole percentuali di azionario. Per il cliente che desidera garanzie sul capitale investito proponiamo polizze assicurative finanziarie a gestione separata, con tasso minimo garantito e durata dai cinque ai dieci anni. Fra i fondi collocati riportiamo il migliore ed il peggiore: +9,00% fondo flessibile con esposizione ma 70% in azioni e un +0,02 fondo monetario (dati al 10/12/2014)”.

L’economia e la finanza rimangono temi ostici.

Abbiamo chiesto alle banche locali quali iniziative siano state intraprese per andare incontro alle esigenze della clientela che deve comunque essere opportunamente informata e, più generale, quali iniziative per migliorare il rapporto banca-cliente nella gestione del risparmio.

Banca di Rimini cita il ciclo di incontri nelle scuole con l’iniziativa “Sbankiamo” e quelli non commerciali con i  clienti in collaborazione con professionisti esterni.

Banca Malatestiana pone “l’educazione finanziaria come parte integrante della consulenza fornita a tutti i clienti con servizi di consulenza specialistica quando le esigenze d’investimento sono “particolarmente complesse”. Valmarecchia parla, invece, di un “rapporto personalizzato con ciascun investitore” senza porre in evidenza alcuna particolare iniziativa.

In conclusione non rimane che ribadire un principio: che anche quando si parla di risparmio e investimenti serve un linguaggio semplice, facilmente comprensibile e tanta trasparenza.

Per rispondere alle richieste dei clienti e comunque per monitorare l’andamento dei mercati finanziari ormai fortemente globalizzati, Banca di Rimini, oltre ai consulenti in filiale, dispone anche di una figura di coordinamento e un’area finanza con cui mensilmente si fanno incontri plenari. Banca Malatestiana è dotata di un Ufficio Finanza e Bancassicurazione ed un ufficio back office che supportano l’intera Rete Commerciale per aspetti consulenziali ed operativi. Il monitoraggio sui mercati finanziari è svolto in collaborazione con consulenti esterni producendo una dettagliata reportistica settimanale. Sì, ufficio titoli centralizzato e pool di esperti in raccolta e risparmio gestito nella front-line.

Covered bond ..questi sconosciuti (dicembre 2014)

Poche settimana fa un giornale on line ha fatto questo titolo: “C’è la fila per acquistare i covered bond bancari (obbligazioni garantite)”. Si parlava di una offerta di collocamento per 750 milioni di euro che ha avuto una richiesta per 3 miliardi, cioè quattro volte tanto.     Penserete che per esserci una domanda così alta il  tasso di rendimento  era piuttosto appetibile. Invece si parla di una cedola del 1,25% e di un rendimento complessivo annuo del 1,35%, meno di una pari emissione precedente e al di sotto di un BTP a dieci anni che paga il 2,40% di interessi.  Tra i sottoscrittori si citano banche centrali, assicurazioni, fondi pensione, cioè non proprio degli sprovveduti.

La spiegazione non sta tanto nel rendimento ma nelle garanzie che il titolo offre, non a caso covered bond in italiano si traduce obbligazioni garantite e sta ad indicare un titolo di credito emesso da una banca o altro intermediario finanziario, poco rischioso e molto liquido, cioè facilmente rivendibile.

Le obbligazioni garantite sono state introdotte nell’ordinamento italiano da una legge del 2005 (L. n. 80/2005) con l’obiettivo di aiutare la raccolta di denaro a basso costo delle banche e contemporaneamente offrire agli investitori titoli con poco rischio, perché appunto garantiti.

Così le obbligazioni garantite si differenziano dalle obbligazioni bancarie ordinarie per la sicurezza   del rimborso, in caso di fallimento (eventualità, per fortuna, piuttosto rara, almeno in Italia) della banca emittente.  Sono titolo assicurati (vincolati) da crediti fondiari,  ipotecari o crediti nei confronti della pubblica amministrazione, ritenuti più sicuri (anche se lo scoppio di bolle speculative nel mercato immobiliare, come avvenuto di recente, meno in Italia ma che ha colpito pesantemente paesi come Stati Uniti, Irlanda e Spagna, per fare qualche esempio, non offre proprio una garanzia assoluta).

In sintesi, a differenza delle normali obbligazioni quelle garantite danno qualche sicurezza in più  per la restituzione del capitale e il pagamento degli interessi grazie al vincolo di una fetta dell’attivo patrimoniale della banca, destinato esclusivamente alla remunerazione ed al rimborso dell’obbligazione.  Su tutto vigila poi  la Banca d’Italia.

Utilizzati in 22 paesi europei, in Germania le obbligazioni garantite sono state istituite da oltre 100 anni, mentre in altri, come la Gran Bretagna e l’Olanda si è provveduto solo di recente alla preparazione di un testo normativo.   Raccogliere denaro a basso costo dovrebbe far prevedere prestiti, da parte delle stesse banche, con interessi altrettanto bassi, ma non sempre è così.

Ma se Pubblico è sinonimo di maggiore garanzia si può anche pensare di investirci direttamente, senza passare per le obbligazioni garantite, che non sono operazioni gratuite.

L’ignoranza finanziaria non è una virtù (ottobre 2014)

Un’indagine, resa pubblica di recente, dell’Ocse (l’Organizzazione dei paesi più sviluppati) sull’educazione finanziaria afferma che i giovani italiani sono privi delle conoscenze sufficienti per compiere scelte rilevanti per il loro benessere economico, come trattare un muto, fare pensione integrative, ecc.   Il grado di alfabetizzazione dei nostri quindicenni è così scarso che peggio di noi sta solo la Colombia, mentre le prime tre posizioni della graduatoria per conoscenze finanziarie dei rispettivi giovani sono occupati da Shanghai-Cina, Belgio ed Estonia.  Per evitare che i ragazzi crescano ignari dei pericoli  delle truffe finanziarie il governo inglese ha deciso di far studiare matematica finanziaria fin dalle superiori.

Ma se i giovani  italiani sono finanziariamente piuttosto ignoranti non stanno meglio i padri, più anziani. Era noto e le ultime indagini lo ri-confermano. La materia a volte è un po’ ostica, ma ne va dei nostri soldi ed è meglio sforzarsi di capirci qualcosa.

Così torniamo ad occuparci di una parte della finanza, che riguarda la gestione dei risparmi. Dove investirli?   I rendimenti dei titoli pubblici sono al minimo: un Bot ad un anno rende lordo lo 0,23 per cento, un BTP a cinque anni l’1,07 per cento, a dieci anni  il 2,39 per cento. Per ottenere di più bisogna essere disposti ad investire per venti o trent’anni.  Con la diminuzione dello spread (la differenza tra i rendimenti italiani e quello dei pari titoli tedeschi)  anche i rendimenti sono calati e adesso si stanno allineando, anche se restano più elevati, a quelli europei. Se la situazione finanziaria italiana non peggiora, quindi il rischio di prestare allo Stato italiano viene ritenuto basso, è probabile che scendano di nuovo. In Germania, che funge da riferimento, un BTP a dieci anni rende poco più dell’uno per cento.

In questa situazione, segnala il prof. Beppe Scienza dal suo blog, qualcuno, per meglio piazzare il suo prodotto, sta facendo dell’allarmismo andando in giro a sostenere che i titoli di Stato italiani non sono più sicuri, perché il Tesoro potrebbe ridurre gli interessi e sospendere i rimborsi. Ovviamente niente di vero.

Il prezzo delle azioni, altro versante dove eventualmente investire, dopo l’impennata del 2013, è continuato a crescere, ma a ritmi meno sostenuti. In Germania e nell’area euro, nel secondo quadrimestre 2014, le variazioni di prezzo sono prossime allo zero e solo in Italia, in recessione, continuano ad aumentare, seppure di meno. Un fatto che dovrebbe suonare come campanello d’allarme, perché non si giustifica un aumento di prezzo dei titoli azionari se l’economia è ferma e i profitti non aumentano. Salvo singoli casi aziendali che hanno conseguito risultati particolarmente positivi.

I fondi italiani, come abbiamo già scritto citando un rapporto di Mediobanca, in un’ottica di lungo periodo (trent’anni) hanno reso meno di un Bot a dodici mesi.  Però nel breve periodo possono essere una alternativa, visto che nel 2013 hanno in media reso il 3,4 per cento, più gli azionari (11,7 per cento), meno gli obbligazionari (1,9 per cento). Questo ricordando sempre che quello che è stato non costituisce nessuna garanzia di quello che verrà.

I Bot ri-battono i fondi (settembre 2014)

Risparmiatori comprate, guardate che rendimenti, una opportunità irripetibile !  Grosso modo sembra questo il tono di tanti inserti e articoli che tessono le lodi dei FONDI (spesso ispirati dei fondi stessi), con l’ammiccante invito a sottoscrivere quote.

Ma l’ultima indagine Mediobanca sui fondi e sicav italiani (1984-2013), gela un po’ (non è la prima volta) gli entusiasmi e ci ricorda che le meravigliose sorti di questi investimenti sono più uno specchietto per creduloni che una realtà da portare a casa.

Il rapporto prende in considerazione circa mille fondi di diritto italiano che gestiscono un patrimonio complessivo di 225 miliardi di euro, il 95 per cento del totale. Un campione, quindi, ampiamente rappresentativo. Unico dato positivo, per il 2013, dopo 9 anni di rosso in cui i riscatti hanno costantemente superato le sottoscrizioni,  è dato da una raccolta netta di segno più  per 17 miliardi di euro. Comunque non sufficiente a recuperare le perdite accumulate dopo il 2008, tanto che il settore è sceso al 14mo posto nel contesto internazionale, dalla quarta posizione che occupava nel 2004 (quando gestiva 376 miliardi di euro).

Nel 2013, il rendimento netto medio del patrimonio dei fondi è stato del 3,4 per cento,  grazie al recupero dei fondi azionari (11,7%) e dei bilanciati (5,6%), come pure dei fondi pensione, sia negoziali (5,4%) che aperti (8,1%); i fondi obbligazionari, invece, si sono fermati all’1,9 per cento.

Quindi tutto bene ?  Certo, se confrontato con il rendimento 2013 di un Bot non c’è paragone. Ma siccome, quando si investe, in genere lo si fa per un periodo medio-lungo, qui le cose cambiano.

Scrive infatti il rapporto: “I rendimenti in un’ottica di lungo periodo sono ancora insoddisfacenti; chi avesse investito in tutti i fondi italiani negli ultimi 30 anni avrebbe subìto, rispetto ad un impiego annuale in BOT a 12 mesi, una perdita di una volta il patrimonio iniziale (aumentato nel periodo di 3,9 volte contro le 4,9 dei BOT ad un anno). Sulla base del tasso risk free (investimenti in titoli di stato privi di rischio), il frutto dei fondi aperti mette in evidenza una distruzione di valore pari a circa 86 miliardi di euro nell’ultimo quindicennio”.

In altri termini: chi, nel 1984, avesse investito e reinvestito una certa cifra in Bot annuali oggi vedrebbe il suo capitale iniziale aumentato di 4,9 volte. Al contrario, lo stesso importo investito nei fondi si sarebbe rivalutato solo di 3,9 volte. Cioè un punto di meno. Ancora più comprensibilmente: 100 euro messi in Bot nazionali nel 1984 sono diventati 592 a fine 2013, 491 se in fondi comuni. E non si dica che trent’anni non sia un periodo lungo.

Rimanendo sui fondi pensione, quelli negoziali (di settore) hanno chiuso il 2013 cumulando un rendimento da fine 2000 del 45 per cento, che per la prima volta dal 2006 supera la rivalutazione del TFR, che è stata del 41,1 per cento. I fondi pensione aperti invece guadagnano appena il 17,9 per cento nel tredicennio, e in ognuno degli anni dal 2001 in poi  il loro rendimento cumulato rimane distante rispetto a quello del TFR. Lievemente migliore il raffronto riferito all’ultimo quinquennio e ai 10 anni da fine 2003, periodi nei quali il rendimento dei fondi pensione, sia per i negoziali, sia per gli aperti, supera la rivalutazione del TFR.

Tre le cose, dei fondi italiani, che non vanno: i costi di gestione ammontano all’1,2 per cento del patrimonio, con punte del 2,9 per cento per gli azionari, che sono quattro volte quelli americani.  La rotazione del portafoglio, che avviene ogni nove mesi, quando negli USA, si fa ogni due anni. E’ come se i gestori italiani si divertissero a far girare il patrimonio, investendo e disinvestendo in continuazione (in una visione di breve periodo), senza però creare valore. Infatti, fino ad oggi, lo hanno distrutto. Ma i costi di questo far girare inutilmente il denaro se lo fanno pagare lo stesso.

La scarsa trasparenza: molti fondi (il 58% del patrimonio dei fondi aperti) hanno trasferito la gestione all’estero, soprattutto in Lussemburgo e Irlanda, dove domina l’opacità e la magistratura italiana non può arrivare. Che fiducia si può avere di chi fugge all’estero per non rendere conto del proprio operato ?

Attenti ai lupi (Marzo 2014)

Secondo un’indagine di Ispo Ricerche, presentata ad un convegno organizzato dall’Associazione dei promotori finanziari (Anasf), più della metà degli italiani intervistati si dichiara poco o per nulla competente in materia finanziaria, cioè nella gestione dei propri risparmi.

Secondo lo stesso sondaggio, solo il 5 per cento degli italiani si rivolge ad un promotore finanziario, cioè a dei professionisti, quindi è logico dedurre che nella stragrande maggioranza dei casi prevalga il fai da te, oppure ci si affidi ai consigli, non sempre disinteressati, della propria banca. In ogni caso non è buona cosa investire, o far investire, i propri risparmi (magari quelli di una vita) senza minimamente conoscere l’uso che ne verrà fatto. Qualunque esso sia.

A questo proposito può tornare utile un passaggio di un rapporto di una banca svizzera, dedicato a come investire nel 2014: “Chiunque sarebbe felice di veder raddoppiare in un anno il prezzo del titolo che detiene….(ma) A dir la verità, quelli che la stampa finanziaria descrive come investimenti di successo sono in gran parte frutto di un tempismo fortunato e in genere hanno vita breve. A nostro avviso, agli investitori conviene molto di più concentrarsi sulla strategia di lungo periodo” (UBS  Year Ahead 2014).

Non fidarsi, quindi, troppo di chi sbandiera risultati a due cifre per pochi anni, perché questi possono essere casuali e non ripetibili. L’invito a orientarsi sul medio-lungo periodo è corretto, ma questo vuol dire anche che nella scelta del proprio portafoglio (azioni, obbligazioni, ecc.) bisogna guardare non a quello che i titoli scelti hanno reso negli ultimi anni, ma prendere un tempo più lungo. Con l’avvertenza, sempre valida, che il passato non offre nessuna garanzia che il futuro si ripeterà tale e quale. Però può offrire qualche tranquillità in più.

Un altro consiglio riguarda la diversificazione: è opportuno non investire tutti i propri risparmi in un solo prodotto, ma preferire un gruppo di prodotti, perché così è più facile bilanciare quello che va peggio (e magari produce perdite), con quello che si comporta meglio e dà buoni risultati.
Sul merito, sempre lo stesso rapporto scrive: “Due classi di attivi diversi possono entrambi produrre buone performance (risultati) nel lungo periodo, ma non necessariamente si muovono all’unisono. Ad esempio, le azioni e obbligazioni statunitensi di alta qualità hanno registrato rendimenti rispettivamente del 7,5% e del 5,2% l’anno, negli ultimi 10 anni. Tuttavia, durante la crisi finanziaria del 2008 le azioni statunitensi hanno perso il 37% del loro valore, mentre le obbligazioni statunitensi hanno guadagnato l’8%”.

Infine ricordarsi che non esistono rendimenti elevati, senza correre rischi di pari grado. Chi ha visto il film The Wolf of Wall Street (il Lupo di Wall Street) ricorderà la storia del signore che aveva vinto qualche centinaia di migliaia di dollari alla lotteria e si fa convincere dallo spericolato  finanziere di turno ad investirli tutti in prodotti che avrebbero reso il 20% l’anno, finendo però per perdere tutto.

Dove investono gli italiani  e i pericoli in agguato (Febbraio 2014)

Scrive  l’ultimo rapporto della Banca d’Italia sulla ricchezza pro capite netta (comprende  case, terreni, risparmi, ecc.) delle famiglie italiane,  che dal 2007  questa  è diminuita, soprattutto in termini reali, scontando cioè l’inflazione.  Niente di drammatico, ma da oltre 350 mila euro di ricchezza pro-medio per famiglia,si è scesi un po’ sotto. Le prime stime per il 2013 parlano di un ulteriore calo. Un segnale evidente delle difficoltà in corso.

Più della metà di questa ricchezza è costituita da abitazioni  e circa un terzo da attività finanziarie, dove ci stanno i risparmi e le varie attività liquide, come il contante, il risparmio postale e i conti correnti bancari.

Alla fine del 2012, prosegue il rapporto,  solo le attività finanziarie ammontavano a oltre 3.670 miliardi di euro, in lieve crescita rispetto al 2011.   Quasi il 42 per cento di queste attività  era detenuto in azioni e obbligazioni private, titoli esteri, prestiti alle cooperative  e altre partecipazioni e quote di fondi comuni di investimento. Il contante, i depositi bancari e il risparmio postale rappresentavano un altro  31 per cento del complesso delle attività finanziarie; mentre la quota investita direttamente dalle famiglie in titoli pubblici italiani (Bot, Btp, ecc.) non supera  il 5 per cento.

Rispetto al 2011, la quota di ricchezza detenuta in titoli pubblici italiani è leggermente diminuita  scendendo sotto i 30 miliardi di euro dell’anno prima. Da ricordare che negli anni ’90 del secolo scorso gli investimenti delle famiglie in titoli pubblici avevano raggiunto il 21 per cento.

La quota detenuta in azioni e partecipazioni (circa 550 miliardi di euro, pari al 15 per cento)  è invece tornata a salire rispetto ad un anno prima, ma nel 2000 ammontava a circa un quarto delle attività finanziarie totali.  Dopo un precedente calo, è tornata ad aumentare anche la ricchezza detenuta dalle famiglie italiane in fondi comuni d’investimento (266 miliardi di euro correnti nel 2012, ma erano arrivati a 421 miliardi nel 2005).

Abbiamo parlato di ricchezza netta, perché agli attivi vanno tolti i passivi, costituiti dai debiti delle famiglie, che ammontano a  circa 900  miliardi di euro, di cui il 43 per cento per mutui destinati all’acquisto dell’abitazione e il resto da altri prestiti, credito al consumo, ecc.

Tutto ciò considerato, alla fine del 2011 la ricchezza netta posseduta dalle famiglie italiane era pari a 8 volte il reddito disponibile lordo delle stesse, un rapporto in linea con quello del Regno Unito (8,3), della Francia (8,1) e del Giappone (7,7),  ma superiore a quello  di Germania (6,3), Canada (5,8) e  Stati Uniti (5,3).

Stando all’ultimo bollettino economico della Banca d’Italia di gennaio,  i rendimenti di  titoli pubblici  sono in discesa un po’ dappertutto, a parte gli USA.  Questo potrebbe fare propendere per investire in azioni,  ma attenti perché le quotazioni, in particolare negli Stati Uniti e in Giappone, stanno raggiungendo valori molto alti, addirittura superiori a quelli pre-crisi. Tanto che qualcuno parla già di una nuova bolla che sarebbe pronta a scoppiare, con le conseguenze già note. Le uniche borse che sono ancora sotto i valori pre crisi sono quelle europee, dove l’economia va però un po’ più a rilento.

Unione bancaria europea: nuovi rischi per i risparmiatori  (Gennaio 2014)

 In un articolo pubblicato a metà dicembre sorso su  Wall Street Italia i presidenti  Adusbef e Federconsumatori, due associazione dei consumatori, rilanciano uno studio recente di UBS (Unione Banche Svizzere) in cui si afferma che l’Italia, con una massa di 243 miliardi di euro, rappresenta uno dei maggiori mercati europei di Non Performing Loan (Npl)/crediti deteriorati,   ed uno dei peggiori rapporti di copertura del rischio. Nel  coverage ratio (ossia la quantità di riserve utili a coprire i non performing loan) stanno peggio, in Europa, solo gli spagnoli, che hanno uno stock di crediti deteriorati pari a 184 miliardi di euro. La Francia ha 171 miliardi di Npl e un coverage ratio del 61%;  il Regno Unito 146 miliardi con il 58,3% di coverage.

Di chi sono questi 243 miliardi di  crediti deteriorati (scaduti, ristrutturati, incagliati o girati a sofferenza) ?  Secondo lo studio UBS  55,9 miliardi, il 23% del totale, sono da attribuire  ad  Unicredit, 48,6 miliardi a Banca Intesa,  29,3 miliardi al Monte dei Paschi di Siena (che tra l’altro deve restituire un prestito di circa 3 miliardi di euro allo Stato italiano che gli ha evitato il fallimento), 17 miliardi al Banco Popolare, 12,2 miliardi a Ubi Banca e 7,3 miliardi al Banco Popolare dell’Emilia Romagna.

Il  rapporto tra le riserve e  totale dei crediti deteriorati,  il coverage ratio, da per le banche italiane un valore medio del 55,3%, con percentuali che spaziano dal 32,3%  di  Banca Marche al 70% di Deutsche Bank, passando per Intesa e Bnl con il 60%, Mps ed Unicredit al 55%; Ubi Banca 45%; Banco Popolare del 40%”. Banco popolare, Bpm e Carige si sono invece già mangiate l’intero patrimonio.

Vigilare e informarsi sullo stato di salute delle banche, oltre a non far correre rischio ai propri risparmi, è importante perché con la nuova Unione bancaria europea i rischi a carico dei risparmiatori aumenteranno. Prevede, infatti, la nuova normativa che andrà in vigore dal 2016, che nel caso di buchi (perdite) nelle gestioni delle banche  le  passività saranno divise in due categorie: quelle assicurate (i depositi dei clienti fino a 100mila euro) e le altre, che possono essere detenute da privati risparmiatori o da investitori qualificati.  Questo vuol dire che se una banca si trovasse in difficoltà  gli investitori (possessori di obbligazioni, ecc.) non ne uscirebbero indenni.  Non è una novità da poco, considerando che le obbligazioni bancarie, cioè le passività non assicurate, oggi possedute dalle famiglie italiane ammontano a 347 miliardi di euro, che sono il doppio dei risparmi investiti in titoli di stato e più di quanto messo nei fondi comuni.

Eppure, nonostante questi maggiori rischi, le banche (caso ultimo Banca Intesa) continuano ad emettere titoli strutturati, con una forte componente di rischiosità finanziaria, che va ad aggiungersi alla  rischiosità dell’emittente, oggi  più pesante del passato.  Il tutto per conseguire poi rendimenti del tutto paragonabili ad un Btp di pari durata, ma molto meno rischioso.

Titoli pubblici con rendimenti in calo: dal Bot annuale che ad ottobre  rendeva, netto, 0,88 % quando oggi si ferma a 0,62 %, e non copre nemmeno l’inflazione, ad un Btp a quattro anni  che offre rendimenti del 2,40 %, quando stava a 2,56 %.

Le tasse sul risparmio (Dicembre 2013)

Quante tasse sul risparmio si pagheremo nel 2014 è ancora un’incognita.  La legge di stabilità in discussione contiene la proposta di portare a 0,2% (da 0,15% del 2013)  l’aliquota applicata su  tutti gli investimenti, compresi i conti di deposito.

Poi c’è la tassazione, la seconda, delle rendite finanziarie (gli interessi dei BOT, ecc.) che qualcuno propone di alzare oltre il 20%.

Che i risparmi, anche piccoli, costituiscono una tentazione per tutti i Governi che cercano di far quadrare i conti, non è una novità.   Basta seguire cosa è successo negli ultimi anni: dal primo gennaio 2012 la tassazione del 12,5% vale solo per i Btp e per gli altri titoli di Stato, mentre per azioni, fondi, bond societari e così via l’aliquota è salita al 20%.  E al 20% sono invece scesi, dal precedente 27%, i prelievi sugli interessi maturati dai conti correnti.

Un esempio per capire: un investimento in azioni da 50.000 euro con un rendimento complessivo ipotetico del 3% annuo (quindi 1.500 euro) prima del 2012 pagava il 12,5% pari a 187,5 euro. Nel 2013, con l’aliquota al 20%, lo stesso rendimento sopporta una tassa di 300 euro,  a cui si è aggiunta la mini patrimoniale dello 0,15% (applicata su tutti gli investimenti) che vale altri 75 euro. Totale: 375 euro. L’anno prossimo, ipotizzando che vada in porto solo l’aumento (da 0,15 a 0,2%) della mini patrimoniale, l’esborso salirebbe a 400 euro (altri 25 euro). Mentre se alla fine si decidesse di portare l’aliquota generale al 22% per lo stesso investimento e lo stesso rendimento, al Fisco si lascerebbero 430 euro, quasi un terzo dei 1.500 euro che rappresentano il guadagno del risparmiatore.

Può consolare sapere che l’aumento delle tasse sulle rendite da capitale e sugli interessi è un trend presente anche in altri paesi Europei. In Francia, sommando il tutto, si arriva al 39%; in Germania è del 26,3% (contiene ancora una imposta introdotta per sostenere gli oneri della riunificazione tedesca), l’Austria è sul 25%, il Regno Unito  ha un’aliquota massima del 37,5%, la Spagna tra il 21 e il 27%  e solo la Russia si accontenta del 13%.

In questo panorama, l’Italia è l’unico paese ad avere ancora un trattamento agevolato (il 12,5% in luogo del 20%) per gli interessi dei titoli pubblici (qui, forse, c’entra il fatto che, avendo un debito molto elevato, un aumento della tassazione comporterebbe un aumento dei tassi, divenendo per il Governo una partita di giro).

Rendimenti sui titoli di stato che si mantengono piuttosto bassi (1,59% per un BTP a tre anni), mentre quello di un BOT ad un anno non copre nemmeno l’inflazione. Per ottenere di più, con l’incertezza dei tempi lunghi, bisogna mirare ai prossimi vent’anni: in questo caso si può portare a  casa più del 4 % netto.

Il ritorno dei titoli spazzatura  (Novembre 2013)

Dopo la multa di 1,2 miliardi di euro inflitta dalle autorità americane alla Ubs, la maggiore banca elvetica, che segue quelle già pagate dalla britannica Barclays e dalla scozzese Royal Bank of Scotland, per aver manipolato gli indici Libor e Euribor (a proposito del mercato che dovrebbe guidare il mondo!), da cui dipendono, non lo dimentichiamo, i tassi sui mutui e sui prestiti applicati dalle banche, sono di questi giorni due nuove ammende  inflitte dal  Dipartimento di Giustizia americano, la prima di 6 miliardi di dollari al Bank of America e la seconda di ben 13 miliardi di dollari alla JP Morgan Chase, entrambi colpevoli di aver confezionato e venduto a mezzo mondo i titoli spazzatura subprime, da cui è partita la crisi finanziaria non ancora risolta.

Ma siccome i Governi, in particolare USA ed Europa, che avrebbero dovuto emanare norme più stringenti, per evitare il ripetersi di simili situazioni, in sei anni hanno fatto poco,  il rischio che la storia si ripresenti è piuttosto alto.

Guarda caso con nuovi subprime. Sono i mREIT, che sta per “mortgage real estate investment trust”, particolari fondi che comprano, impacchettano e vendono mutui. Il tutto garantendo alti dividendi per merito di una legislazione che ancora permette loro di farlo. Il risultato è un mercato, quello statunitense, il cui valore è passato dagli 85 miliardi di dollari del 2008 ai 460 miliardi del primo trimestre di quest’anno e continua a crescere. Fra rischi di controparte, azzardo morale della Federal Reserve e la costante ricerca delle banche del profitto perduto dopo il crash del mercato immobiliare americano, gli mREIT possono essere la prossima bomba a orologeria della finanza americana.

Rischio non proprio ipotetico se un neo premio Nobel per l’economia come Robert Shiller, che ha scritto libri interessanti sull’irrazionalità dei mercati, ha potuto dichiarare che “i prezzi delle azioni stanno crescendo troppo..alimentati da un periodo troppo prolungato di tassi vicini allo zero” (si riferisce all’America non certo in Italia).

Il messaggio, per chi volesse investire in azioni, è chiaro: i prezzi stanno salendo troppo, attenti perché se si forma e scoppia una nuova bolla le perdite sarebbero, come sono state in passato, pesanti.  Attenzione doppia  nei confronti di chi, banca o promotore finanziario, vi volesse rifilare un nuovo subprime, magari vestito di un nome molto accattivante. La regola aurea, per qualsiasi investimento, deve essere sempre quella di mettere i vostri risparmi solo in prodotti di cui riuscite a comprendere la natura e seguirne l’andamento (cosa sono, come funzionano e chi li emette).

All’inizio di novembre il Governo ha lanciato una nuova asta del BTP Italia indicizzato all’inflazione nazionale, da non confondere con i BTP-i, sempre indicizzati all’inflazione, ma quella europea (che in questo periodo è allineata con quella italiana). Indicizzato vuol dire che si rivaluta con l’andamento dei prezzi, quindi il capitale non si svaluta. In più c’è un margine di interesse da riscuotere.  L’unico rischio di questi titoli è che il prezzo può variare e se avete bisogno di venderli, magari in un momento poco buono, ci potete perdere. Proteggono invece dall’inflazione, con un  pezzo che rimane però sempre stabile, i buoni fruttiferi indicizzati delle Poste.

Intanto continua la discesa dei rendimenti dei titoli pubblici: per esempio un Bot ad un anno a agosto rendeva lo 0,93 per cento, adesso 0,88 per cento. Un CTZ a settembre 1,44 per cento, a fine ottobre 1,23 per cento. Poco più dell’inflazione.

Il complemento rischioso della “previdenza complementare” (Ottobre 2013)

Sono circa sei milioni gli italiani iscritti a qualche forma di previdenza complementare, da poter cioè affiancare, nel futuro, alla pensione normale. Le tipologie di Fondi pensione sono diverse (negoziali, detti anche chiusi, quando emanano da accordi tra le organizzazioni sindacali e quelle imprenditoriali di settori specifici;  fondi aperti  slegati dalla contrattazione collettiva, creati e gestiti da banche, assicurazioni, Sgr e Sim e poi collocati presso il pubblico; Piani Individuali Pensionistici (PIP), anche questi aperti a tutti e che assomigliano molto a polizze assicurative).

Le cronache degli ultimi mesi si sono occupati di loro con titoli di questo tipo: i fondi pensione negoziali (meno di 2 milioni di iscritti, in diminuzione visto il calo degli occupati) hanno reso, nell’ultimo anno il 6,5 per cento di media. Nessuno ha fatto registrare rendimenti negativi e i migliori sono stati sopra il valore medio.  Messo così il rendimento è senz’alto buono, ma come abbiamo più volte scritto, data la natura stessa dei Fondi, il rendimento di breve periodo va bene, ma deve contare di più quello di lungo periodo, che è il tempo quando si raccoglieranno i frutti dell’investimento fatto.  Qui le cose sono meno rosee, perché fatta accezione per 4-5 fondi negoziali che negli ultimi cinque-sei anni hanno reso intono al 4 per cento annuo, tutti gli altri, che sono la stragrande maggioranza, non arrivano al 3 per cento,  quando non sono andati peggio. Sono rendimenti perfino inferiori ad  un Btp a dieci anni, dove si rischia molto meno (i principali rischi dei Fondi derivano dall’insolvenza/fallimento dei fondi medesimi e dagli andamenti del mercato finanziario, che come la storia recente insegna non sono proprio stabili e trasparenti).

Quando poi a investirci il Tfr (trattamento di fine rapporto), come molti consigliano, basta sapere che nessun Fondo garantisce il potere d’acquisto delle pensioni future, cioè tra 20-30 anni, mentre il Tfr è agganciato al costo della vita, quindi si rivaluta con l’aumento dei prezzi. Una garanzia non disprezzabile.

Nei tempi più lunghi poi, secondo l’annuale indagine Mediobanca,  i rendimenti sono stati persino peggiori, perché chi avesse investito, negli ultimi 28 anni (dal 1984 al 2011), nei Fondi (tutti i fondi),  oggi si troverebbe con un rendimento inferiore ad un BOT a 12 mesi.

Nel resto del mondo i ritorni sono leggermente migliori ma non eccezionali: secondo l’ultimo bollettino Ocse  Pension market in focus, del settembre 2012, una persona che avesse investito per 40 anni in un Fondo pensionistico, al momento di andare in pensione  avrebbe ottenuto un rendimento annuo  del 2,8 per cento in Giappone, del 4,2 per cento in Germania, 4,4 per cento negli USA e del 5,8 per cento in Regno Unito.

Un BTP a dieci anni, stando all’ultima asta pubblica, rende, in Italia il 4 per cento netto e si rischia molto meno. Indicizzato all’inflazione (europea) si è garantiti sul versante inflazione.

Dove sistemare i risparmi (Settembre 2013)

A fine 2012, rende noto l’ultimo Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia di aprile scorso, per ogni cento euro di debito pubblico, che come è noto si finanzia tramite l’emissione di titoli di stato, la parte detenuta da non residenti (risparmiatori, fondi, ecc., esteri)  superava di poco quota 35, che è  poco più del Regno Unito e degli Stati Uniti, ma decisamente meno del 61 per cento della Germania, 63 della Francia e 83 dell’Austria.  L’unico ad avere collocato all’estero meno del 9 per cento del proprio debito è il Giappone.

Negli anni precedenti la crisi la quota del debito italiano posseduta da risparmiatori stranieri  era più alta, poi la crisi, l’entità del debito dell’Italia (130 per cento del pil, a fronte dell’80 per cento della Germania) e l’instabilità politica hanno spinto molti investitori esteri a vendere, ritenendo i titoli di stato italiani poco affidabili.

Siccome ad ogni aumento dell’incertezza e dell’instabilità corrisponde un aumento dei rendimenti da pagare,  il picco è stato raggiunto nel novembre 2011, quando i titoli italiani a dieci anni arrivarono a rendere quasi l’8 per cento. Un picco che portò alle dimissioni del Governo presieduto da Silvio Berlusconi,  sostituito da Mario Monti.  Il seguito fu un temporaneo abbassamento dei tassi, poi i rendimenti hanno continuato a restare ballerini e solo tra fine 2012 e inizio 2013 la situazione sembra in via di miglioramento, con tassi tendenzialmente in discesa.

Rendono invece decisamente meno (questa differenza di rendimento si chiama “spread”) i titoli pubblici francesi e belgi, che ad inizio 2013 davano  il 2 per cento circa, e quelli tedeschi  ancora meno.   La media euro è sotto il 3 per cento, come negli USA. Poco per i sottoscrittori, che però spesso preferiscono la sicurezza di riavere indietro i propri risparmi a rendimenti più elevati.

In questa cornice, le ultime aste dei titoli di stato  italiani  danno conto di rendimenti in rialzo (esempio: un BTP a dieci anni oggi rende il 3,96% netto, a maggio 3,68%), che con l’inflazione sotto il due per cento lascia un discreto margine.  Ma per proteggersi dai prezzi la soluzione migliore sono i BTP indicizzati, considerando anche che oggi l’inflazione in Europa sta sopra quella italiana (non succede spesso).

Nella speranza di ottenere di più qualcuno potrebbe però pensare di investire i propri risparmi in titoli azionari. Però attenzione perché  mentre  negli Stati Uniti e nel Regno Unito i corsi (indici) azionari hanno già recuperato, e perfino superato, i valori pre crisi, non sta accadendo lo stesso nell’area euro. Posto infatti uguale a cento i corsi azionari di gennaio 2008, sono arrivati a quota 120 negli USA e 110 in Gran Bretagna, mentre sono ancora fermi a meno 70 in Europa. In teoria conviene comprare dove costa meno, ma in questo caso entrano in gioco le prospettive, e quelle dell’economia europea non sono il massimo (il pil dell’area euro è dato a – 0,6 % nel 2013, contro un + 1,8 % degli USA, che diventa +0,8  e +2,7  % nel 2014).

Ma chi volesse a tutti i costi investire nel mercato azionario una possibilità è rappresentata dagli ETF (Exchange Traded Fund) che sono titoli (fondi) che replicano fedelmente e con costi bassi determinati mercati azionari (che, ripetiamo, hanno sempre una componente di rischio superiore ai titoli pubblici).

Per l’investitore intervenire sul mercato degli ETF è molto semplice: un ETF si compra e si vende infatti come un’azione sul Mercato Telematico Azionario (MTA) di Borsa Italiana (segmento MTF). La negoziazione è continua (senza aste). Questo strumento si presta bene anche all’utilizzo da parte del piccolo risparmiatore, dal momento che il lotto minimo di negoziazione è pari a 1 azione / quota di ETF. Ed anche per ciò che riguarda le spese non vi sono sorprese, dal momento che i costi di negoziazione sono indicativamente gli stessi previsti per le azioni. Non è prevista nessuna commissione di “entrata”, di “uscita” e di “performance”(risultato),  a differenza di quanto accade usualmente con i fondi comuni.

Investire in tempi più lunghi, per ottenere di più (Giugno 2013)

Rendimenti in discesa dei titoli pubblici, mano a mano che la situazione economico-finanziaria dell’Italia rientra nella normalità, o meglio esce dalle secche dell’emergenza.  Come si vede dal primo grafico, l’interesse è tanto maggiore quando più lunga è la scadenza. Insomma, comprare titoli di stato fino a tre anni rende meno che acquistarli con scadenza a dieci anni. Ma questo è normale, perché si rischia un po’ di più.

La discesa dei rendimenti è confermata dalle ultime aste dei titoli di stato di maggio. Bisogna investire almeno a cinque anni per avere un rendimento inferiore al tre per cento, comunque positivo perché l’inflazione di aprile era all’1,3%.

Nel resto d’Europa i titoli a dieci anni rendono tutti meno, escluso quelli spagnoli, in Germania poco più dell’1 per cento. Se è così, perché, direte voi, gli investitori dovrebbero scegliere la Germania ?  Semplice. Perché prendono poco ma sono sicuri di riaverli indietro. Sicurezza che esiste anche per l’Italia e la Spagna, ma il loro pesante debito getta, ogni tanto, qualche dubbio, allora gli investitori chiedono di più.

I BOT rendono poco, ma nemmeno le Borse brillano (maggio 2013)

Ogni tanto sui principali giornali nazionali si pubblicano dossier sulla gestione del risparmio, accompagnati da pubblicità che definire iperboliche  è poco.  I rendimenti reclamizzati, soprattutto da certi fondi,  non scendono quasi mai sotto 5-6 per cento l’anno, quindi sono molto invitanti.  Però attenzione: per un esame ponderato non fermarsi mai a quello che hanno reso in pochi anni, ma verificare cosa è successo per periodi più lunghi, per esempio almeno dieci anni.  Ricordando, in ogni caso, che  il passato non rappresenta nessuna garanzia per il futuro.

Buoni risultati da parte di singoli titoli o fondi ci possono essere ma tenere presente che il giornale inglese The Economist del 22 marzo scorso scriveva che “A cinque anni dallo scoppio della crisi finanziaria solo la Borsa americana ha recuperato il livello pre crisi.  La Germania e la Gran Bretagna sono ancora, anche se di poco, sotto,  il Giappone è ancora a meno 30 per cento, la Francia e l’area euro a meno 40 per cento, la Cina meno 60 per cento e la borsa greca meno 80 per cento (Fonte: Thomson Reuters)”.  Vuol dire che i buoni risultati, se ci sono stati, di qualche anno, per essere valutati nella loro reale portata devono misurarsi con le perdite (eventuali) subite dopo la crisi.  Solo così si potrà capire se si sta ancora perdendo o guadagnando denaro.

Certo i rendimenti dei titoli pubblici nazionali, superata la fase più acuta della crisi e recuperata  un certa fiducia verso l’Italia, stanno scendendo precipitosamente, tanto che oggi un BOT ad un anno rende la metà dell’inflazione (in pratica fa perdere).  Per stare sopra l’indice dei prezzi, che viaggia sull’1,6 per cento annuo,  bisogna investire in BTP con scadenza al 2016. Oppure essere disposti a lasciare il denaro  per periodi più lunghi.

Le sirene degli alti ritorni cominciano, quindi, a trovare un terreno favorevole, ma non dimenticare  che gli alti rendimenti si ottengono solo rischiando molto. Che vuol dire anche perdere pesantemente.

Le obbligazioni non sono tutte uguali (Aprile 2013)

Nel settembre scorso la CARIM ha lanciato un prestito obbligazionario di 10 milioni di euro, della durata di otto anni,  con un tasso di interesse fisso molto allettante del 6,5 per cento, ma ne ha collocato (venduto), a  non più di 137 acquirenti,  solo 2,953 milioni, che sono meno di un terzo della cifra  richiesta. Per avere un confronto si tenga presente che all’asta di un BTP dello Stato italiano a dieci anni, che rende meno, di solito la domanda supera sempre l’offerta.  Come mai così pochi hanno colto l’opportunità di guadagnare di più ?  Probabilmente il pubblico dei risparmiatori non se l’è sentita  perché non si trattava di obbligazioni ordinarie,  bensì di obbligazioni subordinate Lower Tier II, cioè più rischiose (per questo rendono di più).

Cerchiamo allora di spiegare di cosa si tratta, invitando sempre i risparmiatori a stare molto attenti ed informarsi beneprima d’investire i propri risparmi.    Come si sa,  si compra una obbligazione quando si presta i propri denari alla banca, ad una impresa o allo Stato, in cambio di un interesse, spesso sotto forma di cedole periodiche, che può essere fisso o variabile. Chiaramente per chi le emette è un debito, perché di fatto sta chiedendo un prestito. Alla scadenza l’acquirente riceverà il rimborso del capitale,  dopo aver incassato, nel corso degli anni, gli interessi.

Al contrario delle azioni, chi compra una obbligazione non ha nessun diritto ad entrare nella gestione dell’emittente, cioè di partecipare alle assemblee degli azionisti dove si decide. In compenso, la remunerazione del capitale di rischio azionario è subordinata al preventivo pagamento di interessi e rimborsi agli obbligazionisti. Della serie: non conto, almeno mi paghi prima.

Le obbligazioni sono emesse allo scopo di reperire, direttamente tra i risparmiatori e a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle dei prestiti bancari, capitali da investire. Il vantaggio per la società emittente deriva da tassi di interesse solitamente inferiori rispetto a quelli che sarebbe costretta a pagare rivolgendosi ad un finanziamento bancario di eguale scadenza.

Ma di obbligazioni ce ne sono diverse, a seconda del grado di rischio. Quando si parla di obbligazioni subordinate, come nel caso Carim,  ci si riferisce ai titoli il cui rimborso nel caso di liquidazione o fallimento dell’emittente (società, banca, assicurazione, ecc.) avviene successivamente a quello dei creditori ordinari, comprese le normali obbligazioni definite senior.  Detto altrimenti: in caso di liquidazione o fallimento dell’emittente sono rimborsati dopo i titolari di obbligazioni normali.

Nel caso delle banche esistono poi diverse tipologie di obbligazioni subordinate, ad ognuna delle quali si accompagnano caratteristiche finanziarie e livello di rischio differente: obbligazioni Tier I (le più rischiose), obbligazioni Upper Tier II, obbligazioni Lower Tier II (quelle di Carim) e obbligazioni Tier III (le meno rischiose della serie). Il rischio, come segnalato, decresce andando dalle prime obbligazioni alle ultime, anche in virtù di una diversa durata.

Fondi Pensione: non è tutto oro quel che si scrive  (Marzo 2013)

Nell’ultimo periodo diversi giornali, cartacei e on line,  hanno enfatizzato l’andamento positivo dei rendimenti dei Fondi pensione nel corso del  2012: in media hanno reso l’8%,  qualcosa di meno  i negoziali (7,8%), di più quelli aperti  (8,6%).  In ogni caso, si sottolinea, più del doppio rispetto alla rivalutazione del trattamento di fine rapporto (tfr), di cui si stima un +3,3% netto.  Ma togliendo l’inflazione, che nel 2012 è stata del 2,6%, perché il netto vuol dire senza l’aumento dei prezzi, anche il rendimento dei Fondi si ridimensiona, pur restando migliore.

E’ stato scritto che a spingere le gestioni previdenziali sono stati in particolare gli andamenti positivi dei mercati azionari internazionali, che in realtà sono andati bene, compreso la borsa di Milano. Va però aggiunto, e non sempre è stato detto in modo chiaro, che  molti di questi mercati sono ancora  lontani dal recuperare le perdite accumulate negli ultimi anni di crisi, tanto che l’indice MIB della borsa nazionale è appena alla metà del valore del gennaio 2008.  E siccome chi investe  nei Fondi, tanto più pensionistici, lo fa in una ottica di medio-lungo periodo è a questo riferimento temporale che bisogna guardare, più che ai risultati di un anno, che  è un periodo piuttosto breve.

Ma su un arco temporale più lungo le cose non vanno tanto bene. A dirlo è la  XXI edizione dell’indagine Mediobanca (www.mbres.it) sui Fondi di investimento italiani 2011 (in totale 956)  che, dopo aver sottolineato le perdite subite nel 2011 (ora compensati dai risultati positivi  del 2012)  e gli alti costi di gestione, che in Italia sono tuttora il triplo degli USA,  arriva alla conclusione che chi avesse investito, negli ultimi 28 anni (dal 1984 al 2011), nei Fondi, oggi si troverebbe con un rendimento inferiore ad un BOT a 12 mesi. Infatti mentre con i  Fondi il patrimonio iniziale si sarebbe rivalutato di 3,5 volte, con i BOT la rivalutazione sarebbe stata di 4,6 volte.  Sulla base di questi risultati si calcola che i Fondi abbiano procurato, ai sottoscrittori,  una distruzione (perdita) di valore di circa 90 miliardi di euro, solo nell’ultimo decennio.

In aggiunta, ma non meno importante, si sottolinea il calo di trasparenza dei Fondi,  per la crescente propensione dei gestori italiani di trasferire all’estero, principalmente nel Lussemburgo, più opaco dell’Italia, quote sempre maggiori del patrimonio in gestione.

Purtroppo i rendimenti nel resto del mondo non sono migliori. Scrive infatti l’Ocse (l’Organizzazione dei Paesi più sviluppati) nel suo Rapporto 2012 sulle pensioni, dopo aver evidenziato l’andamento negativo dei fondi pensione nel periodo 2007-2011 che: “anche quando i rendimenti sono misurati sul periodo 2001-2010, il tasso di ritorno reale dei fondi pensione nei 21 Paesi Ocse non è andato oltre un misero 0,1%. Un risultato che mette a rischio la capacità del sistema privato di offrire pensioni adeguate. Nel Regno Unito, che segue l’andamento generale, il tasso di ritorno degli investimenti dei fondi pensione è stato di -1,1% nel periodo 2007-2010 e dello 0,1% nel periodo 2001-2010”.   Difficile che così si arrivi a incrementare le pensioni future.

Questo evidentemente non esclude che qualche Fondo abbia dato buoni risultati. Per esempio, tra i Fondi più anziani, costituiti prima del 2003, quindi con almeno dieci anni di vita, si citano i prodotti di Fondiaria Sai, Previ-Europa e Previ-Bond, che hanno registrato un rendimento medio annuo  tra il 5,4 e il 5,6 per cento. Oppure Previdenza in Azienda (linea Sviluppo) di Axa-Mps, Previgest obbligazionario di Mediolanum  Seconda Pensione (linea Espansione) di Amundi, che hanno guadagnato tutti attorno al 4,3 per cento medio annuo.

Comunque, nelle scelte, ricordare sempre la citazione in capo alla voce “finanza” su Wikipedia: « Finanza: l’arte o scienza di gestire redditi e risorse per il massimo beneficio del gestore ».  Ultimo, ma non meno importante per le decisioni da prendere soprattutto in campo azionario, tenere presente che oggi metà della aziende, in termini di capitalizzazione,  quotate a Piazza Affari (Milano) sono sotto inchiesta per qualche irregolarità. Tra i principali indagati: Fondiaria Sai, Impregilo, Bpm e UniCredit.

Nelle ultime aste di febbraio i BOT ad un anno stanno dando un rendimento migliore (0,96 per cento contro lo 0,76 per cento di gennaio) e quelli a sei mesi, capitato giusto il giorno dopo i risultati elettorali, è risalito a 1,09 per cento, quando era a 0,83 per cento un mese prima. Tenere però sempre ben presente che l’inflazione viaggia al 2,4 per cento.

Le borse si riprendono, ma attenti all’effetto “gregge” (febbraio 2013)

Secondo qualcuno il 2012 è stato un anno buono per le borse di quasi tutto il mondo. Il MSCI World Index, il più completo indice borsistico mondiale, è cresciuto del 12,2 per cento rispetto al 2011. Addirittura qualche Borsa ha fatto segnare risultati eccezionali, come quella del Venezuela, che è andata su del 300 per cento. Non perché questo Paese disponga di imprese particolarmente competitive,  ma semplicemente perché estrae e vende petrolio, che nel 2012 è andato molto bene.

Negli Stati Uniti è andato bene anche l’indice S&P 500 (paniere azionario formato dalle 500 aziende statunitensi a maggiore capitalizzazione) che è cresciuto quasi del 12 per cento, finendo per tornare ai valori pre crisi, mentre è andato ancora meglio il Nasdaq (i titoli tecnologici) che ha fatto il 14 per cento, un po’ meno il Dow Jones (calcolato soppesando il prezzo dei principali 30 titoli di Wall Street ) solo il 6 per cento.

Meno ben, invece,  è andata la borsa cinese: la Shanghai Stock Exchange A, la piazza finanziaria dedicata agli autoctoni, è cresciuta dell’1,5 per cento. Di contro,la Shanghai Stock Exchange B, la Borsa che opera in dollari ed è aperta anche gli investitori stranieri, ha registrato performance vicine al 14 per cento.

La borsa Giapponese, nonostante questo Paese abbia un debito pubblico che è più del doppio del pil, è salita del 18,4 per cento.

L’Euro Stoxx 50, uno dei due panieri  dell’eurozona creato dalla Stoxx Limited, una joint venture formata da Deutsche Börse AGDow Jones & Company e SWX Group, dell’Italia partecipano sei aziende in tutto, è aumentato del 13,4 per cento.

L’altro paniere Ue, il FTSE Euro 100, un indice azionario costruito sulle 100 società più capitalizzate quotate al London Stock Exchange, è invece cresciuto del 10,2 per cento.

In Italia il ritorno degli investimenti di borsa è stato del 12,2 per cento,  che fa però seguito al calo del 24 per cento nel 2011 e del 12 per cento nel 2010. Quindi per recuperare il terreno perso ancora ce ne vuole.  Basti sapere che a fine gennaio 2013 l’indice MIB della Borsa di Milano era ancora alla metà del valore raggiunto nel gennaio 2007, cioè prima dell’ultima crisi.

Questi risultati,  delle borse,  hanno fatto dire a molti che i portafogli degli investitori istituzionali (fondi pensioni e di investimento,  assicurazioni, banche, ecc.) si stanno ridirezionando verso l’azionario, abbandonando i titoli pubblici (bond).  Ma l’economista Shiller dell’Università americana di Yale, autore di interessanti volumi sul tema delle crisi finanziarie, osservando che il rapporto prezzi/rendimenti ha superato quota 22, contro una media storica del 16,5, già parla della preparazione di una nuova bolla speculativa.  Quindi cautela ed evitare l’effetto “gregge”, che consiste nel seguire la corrente senza sapere bene dove si va a parare. Informarsi bene prima di prendere decisioni.   E’ comunque un fatto che i titoli pubblici (BOT, BTP, ecc.) rendono sempre meno e non coprono più nemmeno l’inflazione. Però è anche vero che gli investitori stranieri sono tornati a comprarli.

Rendimenti titoli pubblici gennaio 2013

Nuova direttiva europea per la gestione del risparmio (Gennaio 2013)

Dopo quella del 2004, recepita in Italia nel 2007, è in preparazione una nuova direttiva europea (denominata Mifid 2) che regolamenta i servizi di investimento, cioè la gestione del risparmio.

Cosa dice la proposta ?   La novità più rilevante è l’introduzione di una specifica tipologia di consulenza definita “indipendente”, nella quale si prevede l’obbligo di considerare, per le raccomandazioni di investimento, un’ampia gamma di emittenti e di strumenti finanziari, in particolare non limitandosi agli strumenti o prodotti finanziari emessi o gestiti dalle società del gruppo di appartenenza, e il divieto di percepire “incentivi” da società terze.

Afferma testuale la proposta della Commissione : “al fine di definire ulteriormente il contesto all’interno del quale viene prestato il servizio di consulenza in materia di investimenti (…) risulta appropriato stabilire le condizioni per l’offerta di questo servizio, quando esso viene prestato su base indipendente. Al fine di rafforzare la protezione degli investitori e di accrescere l’informativa ai clienti in merito al servizio ricevuto, risulta appropriato restringere ulteriormente la possibilità per le società di investimento di accettare o ricevere incentivi da terze parti, e particolarmente da fornitori di prodotti finanziari nell’ambito del servizio di consulenza e di gestione patrimoniale”.
Vengono quindi introdotti nuovi obblighi di comportamento per tutte le società e gli intermediari che offrono questo servizio alla clientela “retail”(piccoli e medi risparmiatori): il cliente deve essere preventivamente informato sulla tipologia della consulenza offerta (indipendente o non).  In pratica, il risparmiatore deve sapere se chi gli da consigli poi ne trae un beneficio, riscotendo incentivi dalla società (finanziaria, banche, assicurazione, impresa, ecc.) che gli fornisce il prodotto finanziario.

Sembrerebbe una proposta di buon senso, i Paesi del Nord Europa, con in testa Gran Bretagna ed Olanda, sono d’accordo, ma ad opporsi ci sono Francia e Italia, cui ha fatto da sponda il Parlamento europeo. Gli emendamenti della Commissione per i problemi economici e monetari del Parlamento (Econ)  cancellano di fatto la tipologia di “indipendenza” nel servizio di consulenza e sostituiscono il divieto della percezione degli incentivi,  con un obbligo di maggiore trasparenza con la clientela. Ancora una volta è prevalsa la voce delle società finanziarie, molto meno quella dei risparmiatori, dispersi e poco organizzati.

Per il presente i rendimenti dei titoli di stato sono in calo: un BOT ad un anno rende oggi 1,28 per cento, quando solo un mese prima dava 1,56 per cento. Lo stesso dicasi per i CTZ al 2014: 1,67 per cento l’ultima asta, a fronte di 1,70 per cento della precedente. Nessuno copre l’inflazione, quindi investendo in questi titoli si è abbastanza sicuri, ma alla fine avete perso potere d’acquisto. Per fare almeno pari o guadagnarci qualcosa bisogna andare su BTP che scadono nel 2017  e oltre.

Nuova imposta (bollo) sui risparmi (Novembre 2012)

Come se non bastassero le tasse già in vigore, e nonostante il calo dei risparmi, il decreto “salva Italia” del Governo Monti, del maggio 2012,  ha introdotto una imposta di bollo su conti correnti, polizze, prodotti e strumenti finanziari. In pratica si tratta di una mini-patrimoniale. In sintesi, il mondo degli investimenti viene diviso in due: coloro che depositano i propri risparmi in banca, presso le Poste o in una polizza assicurativa rivalutabile versano un’imposta forfettaria di 34,2 euro e sono esentati dal pagamento in caso di giacenza annua inferiore a 5mila euro.   Dall’altra parte, coloro che investono in fondi d’investimento e Sicav (società di investimento a capitale variabile), in una gestione patrimoniale, in una polizza unit-linked, in un conto deposito o investono direttamente in titoli obbligazionari o azionari, detenendoli in un deposito amministrato, subiscono il pieno impatto della mini-patrimoniale pagando un’aliquota annua dell’1,5 per mille senza alcuna soglia di esenzione.  Secondo molti l’impatto di questa nuova imposta è regressivo, perché fa pagare di più a chi a meno e viceversa.

Per ricavare invece qualcosa dai risparmi i titolo pubblici offrono rendimenti sicuri ma in calo. Così per ottenere qualcosa in più dell’inflazione, che sta sopra il tre per cento, bisogna investire almeno per un periodo di cinque-sei anni, con i BTP a 10 anni che rendono il 5 per cento, altrimenti si perde in potere d’acquisto.

Prestiti con interessi da usura,  rendimenti meno (Ottobre 2012)

Se il mondo è complicato quello bancario e finanziario, in un periodo di così alta volatilità (instabilità), lo è ancora di più.  Purtroppo non è facile farne a meno, vuoi per un prestito, vuoi per depositare  qualche risparmio. Quindi è meglio attrezzarsi, cioè essere bene informati,  prima di agire.

Cominciamo parlando dei prestiti. Di recente un articolo apparso su CorriereEconomia (supplemento del Corriera della Sera) aveva questo titolo:  “Prestiti, chiedete 15 mila euro ? Dovrete restituirne fino al 40 % in più.  Sottotitolo: interessi al 15% per i piccoli finanziamenti”. Ma non basta, perché i tassi dei fidi possono superare il 20%  e quelli delle carte revolving, assolutamente da evitare, addirittura il 30%. Cosa vuol dire ? semplice: chiedete 100 e dovete restituirne130. In tempi di crisi, mancanza di lavoro e cassa integrazione non proprio un sostegno ai redditi familiari o delle piccole imprese.  Ricordiamo, tra l’altro, che il tasso che viene considerato di  usura è stato fissato, dalla Banca d’Italia,  al 25% per le carte revolving fino ad un importo di  5mila euro e  al 19% per i prestiti personali.

L’articolista cita il caso di Unicredit , la più cara (la stessa che liquidò il vecchio amministratore delegato Profumo, oggi al Monte dei Paschi, con 40 milioni di euro),  dicendo che un prestito di 15 mila euro, da rimborsare in “comode”  72 rate , può costarvi fino a 6.623 euro, fra interessi e commissioni . Leggermente meno cari, in media 5.335 euro per rimborsare lo stesso prestito, gli altri sette maggiori istituto di credito, più le Poste, che si è subito allineata dopo aver conquistato un po’ di mercato.  Se fate i conti scoprirete che vi stanno chiedendo tra il 35 e il 44% in più dell’importo ricevuto.

Oppure vi servono, prosegue l’articolo, 5 mila euro e li volete rimborsate in fretta, in 24 mesi ? Preparatevi a pagare commissioni fino a 725 euro (caso Monte dei Paschi), quando la media è di 629 euro,  più  il 14% di interessi.  Poi tutti si lamentano se i consumi non ripartono e le imprese non investono.  E questi sono gli stessi istituti che dalla Banca Centrale Europea (BCE) hanno ricevuto prestiti a meno dell’1% di interesse.

Passiamo adesso alla gestione del risparmio, non prima  però di raccomandare ai lettori, nel caso vi capitasse, di non seguire troppo alla lettera, anzi è sempre bene leggerli con molte riserve, i consigli di sedicenti esperti, spesso non proprio disinteressati, che di volta in volta appaiono sui quotidiani.

Sentite cosa scriveva in un opuscolo di suggerimenti su come investire, pubblicato da uno dei maggiori quotidiani nazionali, all’inizio del 2011: “Per il 2011 le previsioni sono generalmente improntate a un cauto ottimismo. La Borsa andrà meglio dei bond (titoli pubblici)…”. Risultato: la Borsa di Milano, nel2011, haperso il 26%. Cioè, se avevate investito 100, alla fine vi sareste ritrovati con 74. Un bel risultato !  Intanto i maltrattati bond continuano ad andare meglio anche dei Fondi di investimento. L’economia, e meno ancora la finanza, non è una scienza esatta e il futuro non lo conosce nessuno, quindi meglio non fidarsi troppo di chi dice di avercelo chiaro in testa.

A fine settembre i rendimenti, grazie anche (bisogna dirlo) al miglioramento, più che dei conti (il debito pubblico anche col Governo Monti  è cresciuto)  del clima generale e del freno imposto alla speculazione, sono in discesa e un BTP a cinque anni che ad aprile di quest’anno rendeva netto il  4,32 % a fine settembre dava circa il 3,29%, un punto in meno. Per ottenere rendimenti più alti, il 4,72% bisogna comprare BTP che arrivano al 2026. Scadenza decisamente lunga, ma si possono vendere prima. Ricordarsi però che il prezzo varia, e a volte può non essere conveniente venderli prima.  Altre volte, invece, ci si può anche guadagnare, ottenendo un prezzo superiore a quello d’acquisto.

Per i BTP-i, che vuol dire indicizzati all’inflazione europea (quindi NON italiana), tenere presente che “sia il capitale rimborsato a scadenza sia le cedole pagate semestralmente sono rivalutati sulla base dell’inflazione dell’area Euro, misurata dall’Indice Armonizzato dei prezzi al Consumo (IAPC) con esclusione del Tabacco”.  Indicizzati invece all’inflazione italiana ci sono i Buoni fruttiferi delle Poste, per ottobre serie  J29.

I BOT vincono (di nuovo) sui Fondi  (settembre 2012)

La XXI edizione dell’indagine Mediobanca (www.mbres.it) sui Fondi di investimento italiani 2011 (in totale 956) ci da qualche indicazione che è consigliabile tenere in considerazione:

  1. nei Fondi italiani continuano a prevalere i riscatti, cioè i ritiri (le vendite), sulle nuove sottoscrizioni (acquisti). Questo si traduce in un vistoso calo dei patrimoni gestiti in rapporto al Pil,  che sono scesi dal 42 per cento del 1999,  all’8 per cento del 2011;
  2. nel 2011 hanno chiuso di nuovo i conti in perdita con un  rendimento netto medio di – 2,2 per cento, ma con i fondi azionari a – 11,1 per cento (la Borsa italiana ha perso il 18,6 per cento),  mentre sono andati relativamente meglio quelli obbligazionari – 0,7 per cento. Si salvano solo, con un + 0,8 per cento, i fondi di liquidità;
  3. sono invece fermi al 1,2 per cento i costi di gestione, che salgono al 2,2 per cento per il comparto azionario, esattamente il triplo degli equivalenti fondi USA. Forse per farsi pagare la velocità di rotazione del portafoglio, che in Italia avviene ogni 8 mesi, denotando una visione di breve periodo, mentre in America ogni due anni. Rotazione senza risultato, come si vede;
  4. infine, che poi è quello che conta veramente per il risparmiatore, chi avesse investito, negli ultimi 28 anni (dal 1984 al 2011), nei Fondi, oggi si troverebbe con un rendimento inferiore ad un BOT a 12 mesi. Infatti mentre con i  Fondi il patrimonio iniziale si sarebbe rivalutato di 3,5 volte, con i BOT la rivalutazione sarebbe stata di 4,6 volte.  Sulla base di questi risultati si calcola che i Fondi abbiano procurato, ai sottoscrittori,  una distruzione (perdita) di valore di circa 90 miliardi di euro, solo nell’ultimo decennio. La situazione non va meglio nella prima parte del 2012, anche se bisogna dire che nessun paese, compreso gli Stati Uniti,  ha recuperato i rendimenti pre-crisi;
  5. In calo anche la trasparenza, data la crescente propensione dei gestori italiani di trasferire all’estero, principalmente nel Lussemburgo, più opaco dell’Italia, quote sempre maggiori del patrimonio in gestione.

Dopo questa esposizione è difficile non consigliare di verificare bene, prima di scegliere eventuali alternative d’investimento, i rendimenti dei titoli di stato, a cominciare dai BOT per arrivare agli altri titolo pubblici,  ricordando sempre, nella valutazione dei rendimenti, che con una inflazione del 3 per cento, come è quella italiana in questo momento, qualsiasi prodotto che renda meno vi procurerà una perdita del patrimonio reale (cioè una diminuzione del potere d’acquisto perché l’aumento dei prezzi sarà maggiore del rendimento).

L’ultima asta dei BOT ad un anno di metà agosto ha chiuso con un rendimento lordo del 2,76 per cento, un po’ meno di quella di luglio, quando già era sceso rispetto al mese precedente. Per tutto il resto si rimanda alla tabella allegata, dove non è difficile notare la variabilità dei rendimenti, che riflette l’instabilità del momento.

Rendimenti titoli di Stato 2006-2012

Il Libor e i banchieri non conoscono crisi  (luglio 2012)

Lo avevamo appena scritto (TRE di giugno 2012) che le grandi banche manipolano l’indice LIBOR (London Inter-Bank Offered Rate), impiegato dalle stesse  per prestarsi denaro, con conseguenze  sui mutui, carte di credito, ecc,  che puntualmente arriva la conferma: la Barclays, banca inglese con filiali anche in Italia,  si è presa una multa di 450 milioni di dollari  perché accusata, dalle Autorità di controllo britanniche e americane, di manipolare i tassi di interesse. Gli operatori di borsa chiedevano aggiustamenti e un gruppo di 14 funzionari della Banca diligentemente eseguivano, ricevendo in cambio casse di champagne.  Per la stessa manipolazione sono indagate altre 12 banche. Ed è di metà agosto la notizia che per lo stesso reato di truffa  il Procuratore dello Stato di New York Eric Schneiderman ha indagato Deutsche Bank, Citigroup, Jp Morgan, Chase, Royal Bank of Scotland (Rbs), Barclays, Hsbc, Ubs. In pratica le principali banche del mondo.

Questo avveniva proprio mentre l’amministratore delegato della Barclays  Bob Diamond  si accingeva a riscuotere, tra stipendio e bonus vari, un maxi stipendio di 20 milioni di dollari, nonostante il titolo Barclays stesse perdendo  in borsa il 33 % del suo valore.  Un azionista  ha detto: “Barclays è una mucca da mungere solo a vantaggio dei dirigenti”.

E’ andata quasi meglio al capo di un’altra banca americana, un certo Jamie Dimon della JP Morgan, che nel 2011 si è portato a casa 23 milioni di dollari, l’11% in più del 2010 e nonostante la banca avesse perso, con una operazione sui derivati, qualcosa come 9 miliardi di dollari, quattro volte in più di quanto lo stesso aveva  dichiarato al Congresso americano.

Continua cioè la saga, nonostante l’origine finanziaria della crisi attuale partita proprio dagli imbrogli delle maggiori banche americane, degli stipendi favolosi dei banchieri internazionali, che nessun Governo pare voler fermare.

Nemmeno i banchieri italiani, a leggere i compensi 2011, sebbene inferiori ai precedenti, non se la passano male: Federico Ghizzoni, il più pagato, di Unicredit, ha preso più di 5 milioni di euro; secondo Alberto Nagel di Mediobanca con 3 milioni abbondanti; Corrado Passera, oggi Ministro, da Intesa San Paolo si è preso 2,4 milioni di euro; Antonio Vigni, del Monte dei Paschi di Siena, che ha dovuto chiedere un prestito allo Stato di 3 miliardi di euro perché in cattive acque, non rinuncia però al suo 1,8 milioni di euro di stipendio.  Per quali meriti non è chiaro.

Più o meno negli stessi giorni (fine giugno 2012) la Procura della Repubblica di Trani accusava l’agenzia di rating americana Standard&Poor’s di aver manipolato, nel gennaio scorso,  il declassamento del debito italiano (declassamento=più rischio, quindi tassi più alti), facendo salire artificiosamente i tassi di interesse e crollare il prezzo dei titoli pubblici nazionali (perché nessuno vuol comprare un titolo che viene indicato come ad alto rischio).   Ricordiamo che le Agenzie di rating, tutte americane, sono partecipate dagli stessi investitori che lucrano sulle speculazioni. Quindi non sono proprio neutrali.

Questo sempre per ricordare al “povero” risparmiatore, soprattutto piccolo,  di stare molto attento perché banche e finanza non sono proprio in mano a degli angioletti.  I titoli dello Stato italiano, per quanto se ne dica, forse rimangono tra i più sicuri. I BTP a cinque anni rendono più del 5 per cento, e a 10 anni quasi il 6 per cento. Per un tempo minore si prende meno. Ricordarsi però sempre che l’inflazione è sopra il 3 per cento, quindi con un interesse più basso si finisce per perderci.

Non illudetevi, il mercato è di pochi (giugno 2012)

Il “mercato”, a sentire tanta TV e diversi giornali, sembrerebbe una sorta di grande piazza, adesso si direbbe globale, dove, in un gioco di domanda e offerta, persone, ma soprattutto imprese, si scambiano beni e servizi. Nell’ipotesi, irrealistica, che tutti gli attori siano perfettamente informati, conoscano le cose che comprano, non ci siano accordi sottobanco e la trasparenza sia la normalità, la libertà di mercato dovrebbe dare i migliori risultati.  Peccato che queste condizioni raramente esistano e le prove sono numerose (basta ricordare l’opacità dei titoli “sub prime” venduti, dalle finanziarie americane,  in tutto il mondo o ai derivati rifilati, dalle banche, a funzionari comunali ignari, compreso un paio di comuni riminesi).

Un secondo aspetto, da non sottovalutare,  è che  il mercato è una grande arena dove giocano però attori molto diversi.  La prova, ma è solo l’ultima in ordine di tempo, viene da una ricerca recente del Politecnico di Zurigo intitolata “La rete globale del controllo societario” in cui si dimostra che 143 imprese nel mondo, tra cui banche e società multinazionali, sono in grado, tramite una rete complessa di incroci societari, di controllare il 40 per cento della finanza mondiale e di tenere sotto scacco interi mercati e Stati.

Un altro rapporto, questa volta di Nomisma, ‘Nomos & Khaos’ afferma chiaramente che “Oggi non ha più senso parlare di mercati, perché dieci compagnie controllano il 90 per cento dei derivati (titoli il cui valore dipende da altri titoli, che possono superare anche il centinaio).  A proposito, è delle ultime settimane un’altra perdita milionaria, 2 miliardi di dollari, messa a segno dalla JP Morgan, la principale banca americana, per una speculazione sui derivati finita male. Anche qui avevano detto “fidatevi di noi, è tutto sotto controllo”. Non era vero. Senza regole le banche continuano come prima della crisi, tanto se va male c’è sempre lo Stato, cioè i contribuenti, a pagare. Come sta accadendo in Spagna con la nazionalizzazione di Bankia, la terza banca del paese,  caduta sotto il peso di 100 miliardi di crediti inesigibili legati alla bolla immobiliare spagnola e che costerà ai contribuenti spagnoli 19 miliardi di euro. Un trattamento, il salvataggio, che vale per le banche che sono troppo grandi per fallire, se invece falliscono le imprese, le famiglie e gli stessi Stati il problema pare secondario.

A leggere poi come viene determinato l’indice LIBOR (London Inter-Bank Offered Rate), cioè il tasso di interesse utilizzato dalle banche per prestarsi denaro tra loro, quindi al pubblico, calcolato giornalmente dalla British Bankers’ Association in base ai tassi d’interesse richiesti da non più di 15 banche di 10 monete diverse e che il settimanale inglese The Economist definisce “sorprendentemente fragile” perché manipolabile dalle stesse secondo i loro interessi del momento, ma che nonostante tutto viene impiegato per muovere qualcosa come 360 milioni di miliardi di dollari, cioè cinque volte il Pil mondiale, non si può dire che il mercato sia proprio uno strumento affidabile.

La trasparenza nel settore privato, come in quello pubblico, è indispensabile per gli affari, scrive l’ultimo Global Competitiveness Index 2011-2012 del Forum Mondiale dell’Economia.  Peccato che sia poco praticata.

Nonostante tutto questo potere non si può poi nemmeno dire che investire in titoli bancari negli ultimi tempi convenga molto: secondo il Boston Consulting Group, dal 2007 alla fine del 2011,  gli azionisti delle banche hanno perso mediamente il 10 per cento l’anno. In Europa è andata anche peggio,  perché i possessori di azioni delle banche olandesi hanno visto loro il valore perdere il 28 per cento l’anno,  mentre le azioni delle banche tedesche, francesi e svizzere hanno perso il 20 per cento e quelle inglesi il 14 per cento.   Allora dove investire ?   Risposta difficile. In questo clima di incertezza i titoli pubblici tedeschi (il loro Bot per intenderci) sono super sicuri ma rendono meno dell’uno per cento, cioè al di sotto dell’inflazione. Quelli italiani qualcosa in più.

Investire il proprio denaro senza ascoltare le presunte “autorità” (maggio 2012)

Il 14 settembre 2008 il commentatore finanziario del Washington Post, quotidiano americano, considerato una autorità in materia di mercati finanziari, scriveva: “ Chiunque affermi che stiamo per entrare in recessione, specialmente la peggiore mai vista dai tempi della Grande depressione (del 1929), si sta inventando una propria definizione personale di recessione”. Il giorno dopola banca Lehman Brothers è fallita, provocando il panico su tutti i mercati finanziari del mondo, con  conseguenze che non si sono ancora rimarginate.

Prima di lui aveva difeso le magnifiche sorti dei mercati finanziari, cioè le loro esoteriche creazioni, in nome della presunta capacità di autoregolazione, Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve, la Banca centrale americana.

Questi due esempi di pronunciamenti tanto “autorevoli” quanto sbagliati, stanno a significare che spesso i presunti esperti fondano le loro opinioni più sulla fede in qualche “strano dio”, in questo caso il mercato, che sulla conoscenza vera e puntuale dei fenomeni raccontati e commentati. Una ragione per prendere le opinioni, e soprattutto i consigli  per i propri investimenti (spesso se ne trovano sui giornali), con molta cautela, non dimenticando mai di confrontare informazioni di fonte diversa e soprattutto  di non credere alle promesse di rendimenti miracolosi di prodotti che non si conoscono e di cui è difficile reperire informazioni comprensibili e trasparenti.

Che poi il sistema finanziario americano, ma non solo, da cui tutto ha avuto origine, anche se è stata solo la miccia che ha acceso la prateria, sia da cambiare perché cinque grandi banche, opache  e incapaci di valutare i rischi che corrono, sono arrivate a controllare più della metà della ricchezza finanziaria di quel paese (a proposito della libertà di mercato, da molti tanto decantata!) sono in tanti a sostenerlo, ma altrettanto forti le resistenze a cambiare.

In questo clima incerto, trovare l’investimento giusto per i propri risparmi è veramente complicato. Sulle pagine economiche dei giornali si è scritto, ultimamente, delle buone opportunità che offrirebbero un gruppo di aziende nazionali (Campari, De Longhi, Luxottica, Pirelli e Saipem), denominate sempreverdi perché uscite quasi indenni dalla crisi, anche se l’apprezzamento dei loro titoli in borsa raramente ha superato il rialzo annuale dei prezzi.

E’ pur vero che ultimamente sono pochi i titoli di stato che rendono più dell’inflazione. Un BOT ad un anno che a dicembre 2011 rendeva più del 5 per cento, nell’ultima asta di aprile è sceso sotto il due per cento, quando l’inflazione supera il tre per cento.  Vuol dire perderci, dopo un anno, più di un punto percentuale. Per stare almeno un po’ sopra l’aumento dei prezzi ci vuole un BTP con scadenza 2015. Se invece si vuole ottenere più del 4 per cento bisogna essere disposti a lasciarli fino al 2020 e oltre. Ma non è un vincolo indissolubile, perché si possono vendere anche prima, controllando però le quotazioni (il prezzo). Oppure ci sono i BTP legati all’inflazione (europea) e in alternativa i buoni fruttiferi postali indicizzati all’inflazione italiana, che durano 10 anni, ma si possono ritirare anche prima, incassando l’inflazione più un uno per cento lordo.

Chi decide (spesso) il destino dei nostri risparmi (aprile 2012)

Due notizie, che non faranno piacere ai risparmiatori, ma danno una idea di chi determina, spesso, il fatto che si possa perdere o guadagnare investendo i propri soldi. Soprattutto quando  i prodotti finanziari vengono dall’estero e di loro si conosce molto poco.

La prima fa riferimento alla motivazione che un alto dirigente, un certo Greg Smith,  della Goldman Sachs, una delle più grosse banche d’America accusata anche di aver aiutato la Grecia a truccare i conti, ha dato per le sue dimissioni, schifato del cinismo e della scarsa moralità della banca in cui  lavorava: “Ci sono, afferma, due  modi per affermarsi rapidamente come leader e guadagnare abbastanza denaro: a) persuadere i propri clienti a investire in titoli o altri prodotti di cui l’azienda (cioè la banca) sta cercando di disfarsi perché poco rimunerativi; b) vendere ai propri clienti, definiti pupazzi, qualsiasi titolo illiquido (che non ha un mercato e non sapreste a chi rivendere) ed opaco”. In sintesi: come guadagnare, e farsi un ottimo stipendio, fregando i clienti ignari. Purtroppo, per un funzionario pentito, ce ne sono tanti altri che continuano. Così è meglio non cadere nelle loro “offerte convenienti”. Perché spesso lo sono solo per loro e non per il risparmiatore.

La seconda notizia si chiama high-frequency trader (HFT),  operatori (finanziari) ad alta frequenza, che utilizzano algoritmi (complessi procedimenti informatizzati)  ultra veloci per emettere ordini di acquisto e vendita di qualsiasi cosa, dalle azioni ai barili di petrolio, in una frazione di secondo. Sulla utilità di queste operazioni, comunque in crescita,  la discussione è in corso, ma è successo che la società americana Infinium Capital Management  sia stata multata per 350 mila dollari, e non è la prima volta, dal New York Mercantile Exchange (NYMEX), per una fatto accaduto il 10 febbraio 2010 quando alle 13,26 del pomeriggio, nel giro di tre secondi, furono spacciati in automatico ben 6.767 ordini di acquisto facendo sobbalzare il prezzo del prodotto in questione.  L’algoritmo, super veloce, era stato testato solo un paio diore prima, quando di norma sono richieste 6-8 settimane, e questo spiega la multa (invero piuttosto mite).

Ma tutta la vicenda, che potrebbe essere un aneddoto anche divertente, lo diventa meno quanto ci rendiamo conto di come il prezzo di un titolo (azione, obbligazione, ecc.) possa essere manipolato dal clic di un computer, partito magari per sbaglio, ma che può produrre perdite o guadagni reali ai loro possessori.

Allora è consigliabile seguire l’andamento del titolo su cui si vuole operare per un tempo ragionevole in modo da controllarne il valore medio, o comunque l’andamento in un periodo congruo, al di la delle oscillazioni momentanee, che possono dipendere anche da un computer impazzito, che non paga per i suoi errori, mentre voi si  .

Infine segnaliamo, questo mese, l’uscita dei BTP Italia agganciati all’inflazione italiana (gli altri BTP€i sono indicizzati all’inflazione europea, che in genere è più bassa).  Sono titoli che durano 4 anni e ogni 6 mesi pagano interessi a tasso fisso sul capitale rivalutato all’inflazione del semestre di riferimento, sulla base dell’indice dei prezzi al consumo per famiglie di operai e impiegati (FOI).

Purtroppo, come segnala il prof.Beppe Scienza(www.beppescienza.it), il meccanismo di funzionamento del titolo non è ancora completamente chiaro, se cioè l’inflazione passata viene liquidata con le cedole oppure incorporata nella rivalutazione del capitale. In ogni caso proteggersi dal caro vita quando l’inflazione viaggia sopra il 3 per cento annuo non è da disprezzare. I BTP Italia della prima asta di marzo, ipotizzando una inflazione al 3 per cento, rendono intorno al 4,8 per cento netto.

I Fondi di investimento continuano a perdere  (Marzo 2012)

Con i redditi in calo e la disoccupazione in aumento è veramente difficile sperare che le persone possano risparmiare. Infatti non sta avvenendo.  In discesa continua dal 2004, la propensione (che sta per possibilità) al risparmio delle famiglie italiane, sul reddito disponibile,  è precipitata dal 16 per cento del 2004  a poco più dell’11 per cento di inizio 2012, con un crollo dopo il 2008,  il valore europeo più basso.  Difficilmente le cose potranno andare meglio in un anno di recessione annunciata come quello in corso.   

Con i pochi risparmi in circolazione è quindi altamente raccomandabile non cadere nell’illusione di guadagni facili, magari investendo in prodotti poco trasparenti (come tutte le tipologie di derivati) che qualche promotore finanziario o funzionario di banca cerca sempre di rifilare ai propri clienti.

Sono andati sempre poco bene, e continuano ad andare male anche i Fondi di investimento, aperti e chiusi (sono due forme di previdenza complementare, i primi senza limiti di adesione  i secondi di categoria), che nel 2011 hanno dovuto far fronte più a richieste di rimborsi che a nuove adesioni.      Ma la storia non è nuova, perché anche negli anni precedenti avevano reso molto meno di impieghi alternativi. Ha scritto l’ultima indagine 2011 sui Fondi (più di mille di diritto italiano) di Mediobanca: “Chi avesse tenuto un portafoglio con tutti i fondi disponibili negli ultimi 27 anni avrebbe subìto, rispetto ad un impiego annuale in BOT a 12 mesi, una perdita di patrimonio di quasi il 90 per cento….L’industria dei fondi continua a rappresentare un apporto distruttivo di ricchezza per l’economia del Paese. In una prospettiva minima di 5 anni, si può calcolare un deficit di rendimento rispetto ad impieghi risk-free (a rischio minimo come i titoli pubblici) nell’ordine dei 22 miliardi di euro; in un contesto decennale la distruzione di ricchezza sale a poco meno di 90 miliardi”.

In compenso non calano le commissioni, che banche, assicurazioni e società finanziarie  si auto attribuiscono: “Il volume delle commissioni addebitate ai risparmiatori nel 2010, pari a 2,8 miliardi di euro, non si è discostato da quello dell’anno precedente; l’incidenza media sul patrimonio gestito è rimasta invariata all’1,2 per cento. Il raffronto con l’industria finanziaria americana mette sempre in evidenza che i fondi italiani sono assai costosi. Gli oneri medi dei fondi statunitensi nel 2010 sono stati pari allo 0,95 per cento negli azionari  e allo 0,72 per cento negli obbligazionari, mentre i monetari sono intorno allo 0,26 per cento”.

Dove investire ?  Ci sono conti correnti che offrono fino al 4 per cento netto l’anno, quasi il doppio dei Bot. E’ una possibilità, ma stare bene attenti alle clausole, perché è un rendimento insolito (la banche offrono così tanto perché dovrebbero spendere il doppio per ottenere finanziamenti dal mercato interbancario, cioè ad un’altra banca).  Appaiono invece in discesa i rendimenti dei titolo di stato, con i Bot ad un anno a meno della metà dell’inflazione e solo investendo in BTP per tre-cinque anni si può ottenere qualcosa di più.

Sopraffatti dalla finanza, mentre le Borse cadono (Febbraio 2012)

Dopo una immersione, che dura dal 2008 quando scoppiò la crisi, nel gergo finanziario (borsa che sale, borsa che scende, spread, derivati, debito sovrano/pubblico, ecc.),  che i telegiornali amplificano e rilanciano quasi quotidianamente contribuendo a creare una specie di psicosi di massa,  molti si staranno chiedendo come sia stato possibile che la finanza (banche, assicurazioni, fondi…) abbia potuto assumere un ruolo così rilevante da offuscare non solo l’economia reale, cioè la produzione di beni e servizi veri, ma addirittura mettere in ginocchio gli Stati e la loro Unione, come è il caso dell’Europa.    La risposta è tragicamente banale: le transazioni finanziarie valgono oggi 70 volte (avete letto bene, settanta volte) il Pil mondiale. Con questa sproporzione è facile dominare, speculare, mandare in crisi un Paese, una banca o una impresa. In pratica se un gruppo di finanziari si mette d’accordo, e lo fanno soprattutto negli Stati Uniti,  è difficile resistere. Tanto più se si è piccoli, come lo è ogni  singolo Stato rispetto alla enorme massa finanziaria in circolazione.  Certo gli Stati con i loro debiti ci hanno messo del loro (Italia 120 per cento del Pil, Grecia 162 e Francia 85 per cento), ma questo non giustifica la situazione in cui ci troviamo.  Tanto è vero che il debito americano è prossimo al 100 per cento del Pil  eppure il suoi titoli a sette anni rendono circa l’1,5  per cento. Sul futuro pesano molto le aspettative di crescita e queste, per l’Italia e l’Europa purtroppo sono basse, per non dire piatte.  Da qui il maggior rischio di non poter ripagare il debito che viene percepito.      

Poi è interessante scoprire come alcune banche giochino più parti in commedia, ovviamente guadagnandoci quasi sempre.  Prima ti consiglio, poi speculo contro: potrebbe, per esempio, essere questa la sintesi del comportamento della Goldman Sachs, uno dei principali colossi bancari americani. In breve  è successo questo: un funzionario di banca ha redatto un documento, da far girare tra la clientela più facoltosa, per dare  consigli su come investire i propri soldi. E quale è stato il consiglio ?  Speculare contro l’euro (vuol dire vendere tutto quello che si possiede in questa moneta, dai titoli pubblici a quelli bancari), investendo il ricavato nei cds (credit default swaps, che sono una sorta di polizza assicurativa contro il rischio di fallimento di un emittente, pubblico o privato), il cui valore aumenta (perché se cresce il rischio ce ne sarà più richiesta) quando cadono le quotazioni di banche o stati europei.

La cosa strana non è tanto nel consiglio, che rientra nei compiti di una banca, ma nel fatto che la stessa  Goldman Sachs, che tra l’altro è stata sanzionata per abusi dalle autorità federali degli Stati Uniti, è contemporaneamente consulente di alcuni governi europei, tra cui quello spagnolo. In pratica svolge due parti in commedia: lavora per i governi e contemporaneamente contro, aizzandogli la speculazione.  Loro ci guadagnano due volte, i cittadini europei invece ci perdono sempre.  Eppure nessun governo riesce, o vuole farlo,  a fermare il loro palesi conflitti di interessi, che  danneggia tutti, a partire dai risparmiatori. E nemmeno su un piccola tassazione che colpirebbe le operazioni più speculative i Governi riescono a trovare un accordo.     Come sarà allora evidente, in questa situazione non c’è esperto che possa vantare la ricetta giusta. Anzi, se qualcuno ve la proponesse, cambiate subito, perché vuol dire che non sa quello che dice. La Borsa di Milano, con 268 società quotate (erano 294 nel 2001),  nel 2011 ha perso il 26 per cento:  vuol dire che se avevate investito 100, oggi ve ne trovate 75.  Ma non è stata sola, perché la Borsa di Parigi ha perso il 20 per cento, quella di Francoforte il 16 per cento, quella spagnola il 15 per cento,  la giapponese il 18 per cento, Londra il 7 per cento e solo l’indice Dow Jones di New York ha guadagnato il 5 per cento.

Certo non tutte le società quotate sono andate male: per esempio  Lottomatica (quella che gestisce il gioco), Impregilo, Pirelli, Campari ed Enel Green Power sono andate bene, ma l’elenco finisce qui.     In questa situazione ci vuole molta cautela, è meglio differenziare, cioè non investire in un solo prodotto, avendo sempre un occhio, anche come riferimento, ai rendimenti dei titoli di Stato. Perché a parità di rendimento, forse è preferibile. E adesso che l’inflazione sta riprendendo a salire, un pensiero ai titoli indicizzati (ci sono BTP e Buoni fruttiferi delle Poste, Serie J20,  garantiti dalla Stato italiano) conviene farlo.   Non si diventa ricchi, ma almeno si proteggono i risparmi dall’aumento dei prezzi. Gli altri titoli non sempre lo fanno.

Il risparmio in balia del mercato che non esiste  (gennaio 2012)

I capitali italiani nascosti all’estero oscillano tra 550 e 700 miliardi di euro. 100-150 miliardi il valore annuo del riciclaggio in Italia. 10,5 miliardi di euro le esportazioni illegali di denaro intercettato dalla Guardia di Finanza solo nel 2010. Leggere queste cifre, tratte dal libro di Nunzia Penelope “Soldi rubati”, e pensare alla manovra del Governo Monti (25 miliardi di euro) viene quasi da sorridere, se non fosse piuttosto irritante. Perché basterebbe una tassazione normale, di queste cifre, per chiudere tutti i debiti.

Ed anche sul “dio” mercato, che oramai siamo abituati ad ascoltare con  una deferenza simile alle profezie dell’oracolo greco di Delfi, è meglio sfatare, se ce ne fosse ancora bisogno, qualche mito. Il primo è che il mercato perfetto, come si studia su qualche testo di economia, è una rara eccezione e quasi mai corrisponde alla realtà.  Per avere un mercato che funziona a beneficio di tutti bisogna combattere, fissare regole precise, perché non viene da solo.  Qualche esempio può aiutare a comprendere. Circa un anno fa il giornale americano New York Times ha rivelato l’esistenza di una vera a propria cupola di banchieri, nove in tutto, che ogni terzo mercoledì del mese si riunisce a Manhattam per decidere cosa vendere, comprare, dove speculare, ecc. Insomma, concordano le loro mosse. Altro che concorrenza !   Tra i presenti si citano Goldman Sach, Morgan Stanley, Bank of America, Deutsche Bank, Barclay, UBS, Credit Suisse,ecc. Come si vede nessuna banca è italiana.

Un metodo per portare fondi all’estero è quello di costituire società cosiddette off shore, generalmente nei paradisi fiscali. Si apre un conto in una banca compiacente  e si comincia ad operare. Si investe in un titolo, comprandolo allo scoperto, senza cioè dover tirare fuori un euro, in breve quel titolo sale, il cliente lo rivende e si intasca la differenza. Che sono una tangente, ma non si vede. Come si fa ad essere sicuri che quel determinato titolo salirà in Borsa ?  Semplice: quel titolo è manovrato dalla stessa banca che lo consiglia. L’operazione viene decisa a Londra, ma eseguita da un intermediario di Singapore, così non se ne accorge nessuno (che coincidenza, da Singapore si tenevano le fila anche dell’ultimo scandalo calcistico !).   Cosa c’entra con questo il mercato ?  Niente. Il piccolo risparmiatore magari attende con ansia l’andamento dei suoi titoli,  ma troppo volte i giochi sono molto più grandi di lui. E perfino degli Stati nazionali. E questo consiglia prudenza e una accurata raccolta di informazioni, prima di decidere dove investire i propri denari. E consiglierebbe ai Governi e all’Europa di mettere qualche paletto in più, compreso una tassa sulle transazioni di breve periodo (la Tobin tax).  Comunque i titoli pubblici continuano ad essere ancora un buon investimento, ma ricordiamo sempre che rendimenti alti vogliono dire anche rischio che aumenta. Ovviamente speriamo che l’Italia e l’Europa reggano.

I giovani non hanno niente da risparmiare (Dicembre 2011)

Intervenendo nell’ultima Giornata mondiale del risparmio l’ex Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi,  dopo aver dichiarato che “dall’inizio dello scorso decennio la propensione al risparmio (degli italiani) è scesa di circa 4 punti percentuali, attestandosi nel 2010 al 12 per cento del reddito, un valore di quasi 2 punti inferiore al dato dell’area dell’euro”,  ha aggiunto che la riduzione del tasso di risparmio (la quota di entrate che si riesce a risparmiare)  è dovuta in parte al progressivo invecchiamento della popolazione, ma soprattutto al minor peso delle generazioni più giovani e dalle loro diminuite capacità di risparmio. “Il peggioramento, ha continuato,  delle condizioni retributive all’ingresso nel mercato del lavoro, non compensato da una più rapida progressione salariale nel corso della carriera lavorativa, ha contribuito a contrarre la propensione al risparmio dei nuclei con capofamiglia giovane.  Tra i giovani è aumentata la quota di famiglie con risparmio nullo o negativo; è salita al 32 per cento nel 2008 tra i nuclei con capofamiglia di età inferiore a 35 anni, dal 26 per cento nel 2000. Anche l’accresciuta instabilità dei redditi condiziona le opportunità e le scelte di risparmio dei più giovani”.

Non c’è da sorprendersi, perché senza lavoro (un giovane su tre è disoccupato e più di uno su cinque non studia né lavora)  non c’è reddito, e senza reddito non ci può essere risparmio. Continuando questa situazione, grigio non è solo il presente, ma lo diventerà sempre di più anche il futuro.

Chi, nonostante tutto, qualcosa riesce ancora a risparmiare deve stare molto attento a dove investire. I tassi dei titoli pubblici stanno diventando sempre più appetibili,  ma è bene sapere che sono arrivati così in alto perché nascondono qualche piccola dose di rischio. Certo, l’Italia (forse) è troppo grande per fallire, parafrasando quello che si è detto per qualche grande banca (ma più d’una è fallita), ma un po’ di cautela in più, fino a quando non si rasserenano i mercati (circa la metà del debito pubblico italiano è detenuto da investitoti esteri),  ci vuole.  E l’anno prossimo sarà “terribile” perché lo Stato avrà bisogno di collocare sul mercato circa 400 miliardi di titoli (200 miliardi solo nei primi mesi), in parte per rimborsare quelli che vengono a scadenza, cui si sommeranno altri 100 miliardi circa di obbligazioni bancarie (San Paolo 22 miliardi, UniCredit 19 miliardi e Monte dei Paschi 13 miliardi), anche loro in scadenza,  da rimborsare.  Dato che in questa situazione sarà difficile rimborsare queste cifre senza chiedere nuovi prestiti, ci sarà concorrenza (tra Stato e banche) per accaparrarsi i risparmi disponibili. Le banche poi, se non riescono ad ottenere finanziamenti altrove, faranno di tutto per vendere ai propri clienti i loro bond (titoli). Quindi attenzione, verificare bene rendimenti e condizioni, ma soprattutto distribuire le cifre disponibili su più fronti.  Tornare a mettere i risparmi sotto la mattonella, come si legge in qualche titolo di giornale,  non è proprio il caso, perché rischioso e perché non sarebbero protetti dall’inflazione, che ne erode il potere d’acquisto.  E un modo per proteggersi dall’inflazione è quello dei buoni fruttiferi postali indicizzati, detti “dematerializzati”.  Oppure BOT e BTP  i cui rendimenti si stanno alzando contro ogni aspettativa. L’alto rendimento purtroppo dice anche che c’è un rischio, per quanto remoto, almeno si spera, da correre.

La casta finanziaria  e i “poveri” risparmiatori  (Novembre 2011)

Mentre in tutto il mondo cresce l’indignazione contro i potenti della finanza per i danni provocati dalle loro gestioni azzardate e spesso ai limiti, quando non apertamente fuori, delle stesse legislazioni nazionali, colpevolmente sprovvedute rispetto alla gravità dei comportamenti messi in atto, molti si chiederanno che fine hanno fatto, e soprattutto se hanno pagato qualcosa i responsabili. La risposta è che nessuno è stato giudicato colpevole e anche i loro favolosi stipendi non ne hanno risentito più di tanto.

L’ex capo di Lehman Brothers, il cui fallimento il 16 settembre 2008 ha innescato la peggiore crisi finanziaria dopo quella del 1929,  dinanzi a una commissione parlamentare americana ha sostenuto che “la colpa è stata del governo”.

I due gestori di fondi di Bear Stearns accusati di mentire ai loro clienti nel disperato tentativo di salvare la situazione, dopo aver incassato decine di milioni di dollari, rischiando  vent’anni di carcere, sono stati assolti dal tribunale.

L’ex amministratore delegato di Countrywide, accusato di aver nascosto l’entità delle perdite nel portafoglio immobiliare della sua società ha un processo avviato dalla Sec (l’Autorità di borsa americana) e forse uno penale, ma pochi ci credono. Intanto ha intascato 300 milioni vendendo le sue quote dal 2005 al 2007 e non ha nemmeno bisogno di pagare gli avvocati  che lo difendono perché Bank of America, che ha acquistato Countrywide nel 2008, si è obbligata a pagare le spese legali dell’ex amministratore.

L’ex numero uno di Bank of America è accusato di aver ingannato i suoi azionisti e lo stato sull’entità delle perdite della banca di investimento Merrill Lynch, che Bank of America ha poi  comprato nel 2008. Questo non ha però impedito a Bank of America di distribuire 3,6 miliardi di dollari in bonus ai dirigenti di Merrill Lynch, poco prima che l’acquisizione fosse finalizzata. Da allora l’ex capo è a riposo con una “misera” pensione da 50 milioni di dollari.

Ha avuto invece qualche conseguenza il boss di Goldman Sachs Llyod Blankfein, che ha dovuto accettare una transazione record da 550 milioni di dollari che la banca ha versato il 16 aprile 2010 alla Sec e una multa da 267 milioni di dollari comminata dalla Fsa britannica (autorità indipendente del Regno Unito che ha compiti di vigilanza sui mercati finanziari)per non aver reso pubblico la notizia di essere sotto inchiesta da parte della Sec, ingannando quindi i mercati.

Non ci stata ad essere additato come colpevole nemmeno l’ex amministratore (si chiama Cassano ma non c’entra col giocatore) del colosso assicurativo mondiale Aig, uno dei centri del sisma finanziario mondiale, il cui salvataggio è costato ai contribuenti americani 180 miliardi di dollari. La sua gestione disastrosa non gli ha impedito di portarsi a casa 300 milioni di dollari.

Ma meglio di tutti è andato all’ex amministratore di Merril Lynch, uno per intenderci che aveva speso 1,3 milioni di dollari per ristrutturare il suo ufficio mentre riduceva la sua banca in uno stato pietoso. All’inizio del 2010 è stato nominato capo della banca Cit Group con uno stipendio da 6 milioni di dollari, più  un bonus da 1,5 milioni. Quanto si dice l’ingordigia.

Non si comportano meglio i nostri: Alessandro Profumo, l’ex Amministratore delegato di Unicredit, oggi indagato per truffa fiscale, dopo esserci attribuito un compenso di 3,5 milioni di euro nel 2008 e 4,3 milioni nel 2009, ha lasciato nel settembre 2010 con una liquidazione di 40 milioni di euro.

Perché abbiamo voluto fare questa lunga carrellata ?  Per mostrare quanto è distante il mondo dell’alta finanza da quello di un piccolo risparmiatore che il più delle volte deve lottare  solo per mantenere il valore dei propri risparmi.  Eppure questi signori operano con i nostri risparmi.

Per venire a cose più familiari, anche in questo mese i rendimenti dei titoli pubblici italiani continuano a salire, ciò potrebbe essere una buona notizia perché vuol dire che si prende di più, se non fosse però che è anche il segnale di una diminuita fiducia (vuol dire che sono diventati più a rischio)  verso lo stato dei conti italiani.  Una misura di questo maggiore rischio è data dalla differenza (spread) con i rendimenti dei titoli tedeschi, ritenuti in assoluto i più sicuri. Purtroppo altri investimenti, come le azioni, stanno andando ancora peggio, salvo eccezioni.

BOT .. nonostante tutto (Ottobre 2011)

Certo il livello di indebitamento dello Stato italiano è piuttosto preoccupante. In assoluto i debiti (a luglio 2011) ammontano a 1.912 miliardi di euro, un valore  che in assoluto è il quarto più alto al mondo, dopo Stati Uniti, Giappone e Germania. Questa montagna di debiti ci costa, per il pagamento degli interessi,  70 miliardi di euro l’anno, che aumenteranno se l’affidabilità della politica di bilancio del Governo continuerà ad essere messa in dubbio (gli interessi aumentano quanto il rischio di prestare fondi  all’Italia si fa maggiore, come è capitato nelle ultime setimane).

In questa situazione, il fabbisogno finanziario dello Stato italiano nei prossimi mesi è calcolato in  circa 150 miliardi di euro, da ripartire tra autunno e primavera 2012.  I titoli a lungo termine (BTP) ne rappresentano più di 100 miliardi: praticamente i due terzi.  Questo vuol dire che non mancheranno aste di titoli pubblici da acquistare.  Ma la domanda che molti risparmiatori si staranno facendo è molto semplice: possiamo fidarci ?  Cioè, possiamo essere sicuri di riavere indietro i nostri denari alla scadenza ?  Premesso che la certezza assoluta non esiste, è però ragionevole pensare che se si tiene in piedi una banca perché “troppo grande per fallire”, a maggior ragione non è “facile” (per le conseguenze a catena che si produrrebbero) far fallire una nazione che rappresenta la settima potenza economica mondiale.  Insomma l’Italia non è l’Argentina.

Anche perché non sembrano esistere alternative migliori, visto che in tutto il mondo le borse azionarie sono in discesa (fatto uguale a 100 le quotazioni azionarie mensili dell’Italia del gennaio 2007 oggi siamo a quota 35) e la partecipazione dei privati agli scambi azionari è in forte declino. Negli Stati Uniti la percentuale di famiglie proprietarie di azioni, fondi ed Etf azionari era del 23 per cento nel 1998, ma solo del 14 per cento nel 2008.  In Italia la quota di famiglie proprietarie di azioni quotate è scesa dal 18 per cento  del 2000 al 7 per cento  del 2008.

Quindi valutando il tutto investire nei titoli pubblici, con maggiore sicurezza in quelli tedeschi che però rendono di meno (appunto perché sono più sicuri), rimane ancora una alternativa abbastanza sicura da prendere in considerazione.  Tanto più che gli interessi dei BOT come dei BTP sono saliti in modo significativo nelle ultime aste. Qualche esempio: un BOT ad un anno che a maggio rendeva  l’1,86 per cento netto, a settembre è salito a 3,68 per cento.   Il rendimento di un BTP a cinque anni, nello stesso periodo, è balzato dal 3,51 per cento netto, al 4,97 per cento.

Tra i prodotti finanziari ci sono anche le obbligazioni bancarie, che in genere i funzionari offrono a piene mani, ma attenti, perché oltre a valutare gli interessi che vengono corrisposti, la manovra del Governo in carica ha aumentato dal 12,50 al 20 per cento le tasse sulle cedole (che invece sono rimaste invariate per i titoli pubblici).  Quindi fare bene i conti.

Come difendersi dalla finanza mondiale (Settembre 2011)

Nel mondo sta succedendo qualcosa di surreale. Governi democraticamente eletti, e nemmeno tanto piccoli visto che si comincia con gli Stati Uniti per finire con la Grecia, passando per l’Italia e vicini, sono tenuti sotto scacco da tre agenzie private americane che senza criteri trasparenti e verificabili distribuiscono pagelle di affidabilità, facendo sobbalzare le borse di tutto il mondo, senza curarsi minimante delle conseguenze. Per intenderci le agenzie sono le stesse che fino al giorno prima avevano dato il massimo dei voti a banche sull’orlo del fallimento come la Lehman Brothers, dove agivano anche come consulenti, all’origine del disastro attuale. Agenzie che hanno colossali conflitti di interesse, visto che tra i principali azionisti figurano i più grandi fondi di investimento americani, cioè quelli che poi decidono dove investire i denari dei risparmiatori. Si potrebbe dire che  la speculazione se la costruiscono in casa.

Ma la cosa più sorprendente è che, nonostante i precedenti, nessun Governo, dagli Usa all’Europa, sia ancora riuscito  a dettare delle regole da far rispettare (in verità nemmeno proposte), a partire dalla eliminazione dei loro innumerevoli conflitti di interesse (sono consulenti, giocatori e arbitri nelle stesso tempo).  Se i Governi sono così impauriti è chiaro che il potere economico-finanziario che hanno accumulato è molto forte.  La finanza,  negli ultimi trent’anni, è cresciuta più velocemente del Pil (la ricchezza che un paese produce in un anno) e da servitore è diventata la padrona dell’economia reale.   Con risultati tutt’altro che rassicuranti.

Qualche studioso ha scritto che quando i prestiti al settore privato oltrepassano il 110 per cento del Pil, un’ulteriore espansione del sistema finanziario inizia ad avere un effetto negativo sulla crescita economica. Infatti, prosegue, tutti i paesi che stanno avendo problemi in seguito alla crisi hanno una dimensione del sistema finanziario che si trova al di sopra della soglia del 110 per cento del Pil. Qualcuno dovrebbe ascoltare, a difesa del proprio Paese, ma anche dei tanti risparmiatori che si sentono in balia dei vandali e non sanno più dove aggrapparsi.

In situazioni del genere è comunque consigliabile mantenere la calma, verificando bene la qualità del proprio investimento, indipendentemente dalle altalene delle borse.  Se una impresa è solida, ha reagito bene alla crisi, vende e fa profitti non c’è motivo di vendere le sue azioni e obbligazioni.  Lo stesso dicasi dei titoli pubblici, compresi quelli italiani  (anche se i più sicuri restano quelli tedeschi), dove il vero problema non è tanto l’ammontare del debito (120 per cento del Pil…ma qualsiasi famiglia che fa un mutuo per la casa si indebita per molto di più di quello che guadagna in un anno) ma la debole e quasi inesistente crescita economica, senza la quale pagare il debito diventa più difficile.

Nelle ultime aste i rendimenti dei titoli pubblici italiani sono aumentati (un normale Bot annuale che rendeva l’1,86 per cento netto a maggio, in agosto è arrivato al 2,62 per cento, ed aumenti più consistenti ci sono stati per i Btp) e valutando bene le scadenze non sono da disprezzare. E’ invece poco consigliabile vendere degli eventuali titoli pubblici già acquistati in precedenza, perché, visto l’aumento dei rendimenti,  è molto probabile che il loro prezzo sia sceso. In pratica, quello che potreste guadagnare investendo nei nuovi, potrebbe essere inferiore alle perdite della vendita.  Alla scadenza vi saranno invece rimborsati a prezzo pieno. L’ipotesi vendita può essere presa in considerazione se la durata residua è ancora piuttosto lontana.

Ultimo regalo dal Governo: una nuova imposta di bollo variabile per i depositi titoli. Lo prevede il testo definitivo del decreto legge sulla manovra di Tremonti: si passa da 10 euro per quello mensile a 120 per quello annuale; dal 2013, poi, per importi sotto i 50mila euro da 12,50 euro a 150 e per quelli sopra i 50mila euro da 31,66 a 380 euro.

Attenti a derivati, Cds…… (luglio 2011)

È doveroso denunciare il problema delle dimensioni che le operazioni su derivati stanno assumendo. Soprattutto sull’opacità e sulla qualità del sottostante questi contratti, le autorità di controllo devono fare maggiori approfondimenti»: questa la dichiarazione di  Antonio Catricalà, presidente dell’Antitrust all’inizio del maggio scorso.  Il quale se la prende, a ragione, anche con i Cds (Credit default swap), che sono polizze assicurative contro il rischio di fallimento di un emittente, ma che  vengono venduti, in mercati non regolamentati e poco trasparenti, come prodotti autonomi (in pratica come se la vostra assicurazione rivendesse la polizza della vostra auto) e che possono diventare volano della speculazione.

Ricordiamo che i bond Lehman (la banca americana che ha dato il via alla crisi finanziaria mondiale del settembre 2008) erano molto meno sofisticati dei derivati, eppure i risparmiatori italiani hanno perso oltre 5 miliardi di euro.

Tremonti alza le tasse, ma non sui titolo di Stato………..

Armonizzazione al 20% dell’aliquota sulle rendite finanziarie: è questa la misura  contenuta nella delega per la riforma fiscale progettata dal Ministro Tremonti.

In sintesi, la riforma tenderà ad avvantaggiare i conti correnti bancari in tutte le sue forme (tradizionali, online, deposito vincolato): finora erano tassati al 27%, a breve il prelievo si ridurrà al 20%. Al contrario, altre forme di impiego del denaro quali azioni, obbligazioni, fondi comuni di investimento, Etf, certificati di investimento, pronti contro termine, buoni postali fruttiferi subiranno un aumento dell’aliquota dal 12,5% attuale al 20% (come di fatto avviene nella maggior parte di paesi d’Europa). I titoli di Stato saranno invece esclusi dalla manovra e la trattenuta su BoT, BTp e simili resterà invariata al 12,5%.

Ma non basta. Tra le misure anche una nuova imposta di bollo per i depositi titoli. Lo prevede il testo definitivo del decreto legge sulla Manovra che é stato trasmesso al Quirinale. Si passa da 10 euro per quello mensile a 120 per quello annuale; dal 2013, poi, per importi sotto i 50mila euro da 12,50 euro a 150 e per quelli sopra i 50mila euro da 31,66 a 380 euro.

Aumentano i rendimenti di BOT e BTP

Insomma il mondo finanziario è piuttosto agitato, comprare un titolo dello Stato greco renderebbe tantissimo, ma il rischio di rimetterci tutto è pure grande.  L’Italia, con un debito pari al 120 per cento della ricchezza prodotta in un anno (Pil), non gode il massimo della salute, ma offre qualche garanzia in più. I rendimenti, stando alle aste di giugno, di BOT e BTP stanno crescendo e possono rappresentare una valida alternativa. Un BOT ad un anno rende netto 1,90 per cento, un BTP a cinque anni il 3,46 per cento.  Ricordare che l’inflazione si sta avvicinando al 3 per cento annuo, mangiandosi di fatto buona parte del rendimento.

Un CCTeu TV  (Certificato di Credito del Tesoro indicizzato all’Euribor a sei mesi) rende un po’ meno, 3 per cento netto, ma essendo legato ai tassi d’ interesse, potrebbe crescere nei prossimi mesi.

Le sirene e la realtà (giugno 2011)

Poche settimane fa c’è stato, presso il Centro Congressi di Rimini, l’annuale ITForum dedicato agli investimenti e al trading (commercio/negoziazione), cioè alla gestione dei risparmi e di altre risorse finanziarie.   Presenti le maggiori banche e società finanziarie del settore, ognuno esponeva, facendo tutti appello alle più moderne tecnologie  visive, con i propri prodotti anche la propria filosofia degli affari. Qualche presentazione aveva anche uno stile didattico e poteva essere utile da ascoltare. Ovviamente, e forse era difficile attendersi altrimenti, il clima che si respirava era quello di come fare denaro con denaro. Molti elogiando, e un po’ vantandosene,  il guadagno che si può ottenere puntando sulla velocità degli scambi, cioè la compra-vendita  nel giro di poche ore o al massimo di una giornata. Non molto di moda gli investimenti per  medio-lunghi periodi (in fondo è comprensibile, perché in quel caso molti di loro si troverebbero senza sapere cosa fare).

Ma una dichiarazione di un promotore di importante gruppo bancario nazionale è stata rivelatrice, quando ha affermato che, vuoi perché escono in ritardo, ma soprattutto perché non hanno tempo, loro i bilanci delle aziende nemmeno li leggono. Seguono il mercato, ma non si fanno troppe domande su chi determina il suo comportamento, non sempre, come abbiamo visto, razionale.

Certo leggere i bilanci di tutte le società quotate nelle borse di mezzo mondo non è un’impresa facile e richiede, oltre al tempo, parecchie competenze.  Ma non farlo non è un buon servizio per i risparmiatori  i quali hanno tutto il diritto di sapere se l’azione o l’obbligazione che il promotore o funzionario gli sottopone viene da una impresa con bilanci a posto oppure è sull’orlo del fallimento (vedi Parmalat per tutte).

E nemmeno, aggiungiamo, ci si può fidare troppo delle agenzie di rating, insomma quelle che sogliono dare le pagelle di affidabilità, perché è noto che la maggiore di loro, la Standard & Poor’s, aveva dato il massimo di voti proprio alla Lehman Brothers che poi è fallita clamorosamente pochi giorni dopo.

Questa confessione dovrebbe rendere i risparmiatori, soprattutto i piccoli, molto guardinghi e disponibili a chiedere sempre, prima di comprarli,  un supplemento di informazioni  sui prodotti finanziari che gli vengono offerti. Ricordando che una azione o una obbligazione, oltre al rendimento, è buona se emessa da una azienda solida. Altrimenti più che un rischio è un azzardo.

Ha scritto di recente il premio Nobel per l’economia Stiglitz: “La deregulation finanziaria negli Stati Uniti è stata la causa principale della crisi globale scoppiata nel 2008….La crisi ha dimostrato che i mercati liberi e senza vincoli non sono efficienti né stabili. Non svolgono neanche un’azione positiva nel fissare i prezzi…”.

Questi giorni i quotidiani sono pieni di inserzioni di banche che propongono obbligazioni turche, brasiliane, sudafricane, ecc, con rendimenti a prima vista senz’altra accattivanti: tra l’8 e il 9%. Messi al lato dei nostri BOT non c’è paragone. Ma attenti, perché non sono in euro, bensì nella valuta locale.  Un rendimento così alto può essere annullato da una semplice svalutazione della moneta nazionale (real brasiliano, lira turca, ecc.).  Cioè dal prezzo maggiore per ricomprare, se volete portare a casa  gli interessi, l’euro.

Attenti, perché i cattivi prodotti a volte ritornano (maggio 2011)

Qualsiasi persona, risparmiatore o meno, di fronte ad una catastrofe economica di portata mondiale, come è stata l’ultima crisi del settembre 2008, direbbe di stare attenti a non ripetere gli stessi errori che hanno portato a quelle conseguenze. Non bisogna essere economisti, basta il buon senso. Purtroppo non è così. Il mondo della finanza, anche se può creare disastri, non ama le regole, a cominciare da un limite ai propri stipendi da favola, che sono ripresi come prima, compreso le banche salvate con denaro pubblico.  Scrive al riguardo il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, intervenendo alla Biennale della democrazia di Torino: “La crisi globale che abbiamo attraversato ha mostrato che una risposta coordinata a livello internazionale si realizza più facilmente in presenza di uno  shock talmente grave che tutti sono disposti a rinunciare al proprio interesse particolare in nome dell’interesse comune. Il problema è che questa risposta coordinata tende a indebolirsi non appena il momento più acuto della crisi è superato”.

La vigilanza sui comportamenti dei grandi banche e gruppi finanziari non può quindi venire meno, non fosse altro per non doverne pagare le conseguenze poi, in termini di crisi economica e risparmi che evaporano.   Ma si procede ancora in ordine sparso. Tanto è vero che mentre negli Stati Uniti e a Londra, grandi banche internazionali finiscono sotto accusa, in Italia vengono assolte con formula piena (caso Parmalat). Oltre Atlantico, un ponderoso rapporto del Senato americano, frutto di oltre due anni di inchiesta, punta il dito contro le grandi banche di investimento (prime tra tutte Goldman Sachs e Deutsche Bank) e le accusa di aver ingannato gli investitori, vendendo prodotti troppo complessi e troppo rischiosi e di aver curato più  i propri interessi che quelli dei loro clienti.

Come è nostro costume non diamo indicazioni su come investire i propri risparmi,  ma semplicemente suggeriamo elementi da considerare. La prima è sicuramente quella di investire i propri risparmi in prodotti che si capiscono bene di cosa sono fatti. Stare lontano, perché sono ripresi a circolare, da prodotti tipo derivati che basano il loro valore su sottostanti, di sottostanti…… Poi c’è l’inflazione che sta riprendendo e si sta avvicinando al tre per cento, tanto che la stessa Banca Centrale Europea ha rialzato il costo del denaro dall’1 all’1,25 per cento  (una delle missioni ella BCE è quella di preservare il valore dell’euro). Questo vuol dire, per esempio, che qualsiasi titolo a reddito fisso, se i prezzi dovessero continuare a crescere, perderebbero valore, perché il rendimento reale (le cose che ci si possono comprare sul mercato) verrebbe eroso.  In questo caso ci si può difendere comprando titoli che proteggono dall’inflazione come i BTP-i  o i Buoni fruttiferi postali indicizzati  all’aumento dei prezzi, purtroppo solo a partire dal quarto anno, e questo non è proprio il massimo.

Sul fronte dei titoli pubblici,  i Bot ad un anno non coprono l’inflazione, i CTZ lo fanno a malapena,  e solo i BTP al 3,75% e al 4,75% consentono un margine di guadagno reale, ma bisogna essere disposti a lasciarci i risparmi per un minimo di cinque anni.

L’alternativa chiamata “borsa”  (aprile 2011)

Di fronte a rendimenti di titoli pubblici che spesso non coprono nemmeno l’aumento dei prezzi, è facile farsi tentare da qualcosa che potrebbe offrire rendimenti migliori. Rischiare di più per ottenere rendimenti migliori è una decisione che richiede buone informazioni (esempio: sui risultati dell’azienda almeno negli ultimi dieci anni) e tanta ponderazione.

Le Borse non servono più ?

E’ una domanda forse retorica, ma giustificata. Infatti, le società quotate in borsa, più che aumentare stanno diminuendo. Negli Stati Uniti, nel 1997,  le società quotate  erano 8 mila, oggi sono a stento 5 mila.  Nell’Europa continentale, ad inizio 20000, erano 13 mila, per scendere a poco più di 9 mila a fine 2010. Facendo la somma delle società quotate nella maggiori borse (Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Francia, Germania e Italia) si ricava poco più di 12 mila titoli al listino. Le società quotate nella Borsa italiana, la più piccola, sono ferme a 291 (meno della metà della borsa tedesca).

Tra le ragioni di questo ritiro dalla borsa si indicano: l’impoverimento, in tutto il mondo, della classe media che non avrebbe più soldi da investire; la diminuzione del costo del denaro che rende meno costoso indebitarsi con le banche; le pressioni per risultati di breve periodo, a tre mesi al massimo un anno; la tendenza, emergente, di aprire il capitale non ad una platea indiscriminata, come potrebbe avvenire in borsa, ma ad investitori selezionati (investitori istituzionali, banche di investimento, ecc.).  L’insieme di tutti questi fattori  ha prodotto il risultato che oramai, nelle borse dei Paesi sviluppati sono più le cancellazioni delle iscrizioni. Anche nella Borsa di Milano: 17 iscrizioni e 28 cancellazioni, nel periodo 2009-2008.  Insomma, il mercato borsistico non tira molto.

Nel lungo periodo investire in borsa rende di più: non è vero !

Quante volte, di fronte a risultati, anche delle borse, non proprio eccellenti, i risparmiatori si sono sentiti ripetere: non preoccupatevi, l’investimento è vero non ha reso molto, magari meno di un modesto BOT o BTP, nel breve periodo può succedere, ma sappiate che alla lunga le cose si rimettono a posto e le azioni rendono sempre di più. Ecco, sappiate che questa affermazione corrisponde più al desiderio di chi vi propone l’investimento che alla realtà, perché di fatto non esiste nessun supporto documentale serio che lo possa confermare (vedere anche TRE di febbraio 2010).

Lo spiega molto bene l’economista americano della Yale University Robert J.Shiller nel suo volume “Irrational Exuberance”, dedicato ad una analisi dell’ultima e delle precedenti crisi finanziarie, il quale fa risalire la prima affermazione di un supposto maggior rendimento, nel lungo periodo, dell’investimento in titoli azionari rispetto ai bond (obbligazioni),  addirittura ad un volume di successo edito nel 1924  (prima cioè del grande crollo della borsa di New York del 1929).

Scrive l’Autore che il “fatto” ampiamente ripetuto secondo cui negli Stati Uniti (ma vale anche per l’Europa) non c’è mai stato un trentennio in cui i bond abbiano reso più delle azioni è palesemente privo di fondamento.

Anzi, nei decenni che hanno seguito i boom di borsa del 1901, 1929 e 1966, le azioni hanno reso, almeno negli ultimi due periodi,  sistematicamente meno dei normali tassi di interesse di breve periodo.

Prendendo invece come riferimento un tempo di vent’anni, a partire sempre dagli anni del boom di cui sopra,  i rendimenti di borsa hanno reso meno dei bond tra il 1901 e 1921. Il risultato è stato migliore per gli investimenti azionari solo nel periodo 1929-1949 e per il 1966-1986, ma più per merito dell’alta inflazione, che ha eroso i rendimenti, che per la forza dei titoli azionari.

In conclusione, scrive Shiller, “l’evidenza che nel lungo periodo i titoli azionari rendono sempre meglio dei bond semplicemente non esiste”. Ed anche se in qualche periodo può essere andata così, bisogna ricordare che il futuro non necessariamente è una replica del passato.

Cautela con alcuni titoli pubblici europei e con i bond (Marzo 2011)

Abitualmente scriviamo che i titoli pubblici, magari rendono meno, ma sono più sicuri. Questo è generalmente vero, soprattutto in Europa e nei principali paesi sviluppati, magari meno altrove, come i risparmiatori che hanno investito, o sono stati convinti ad investire, nei titoli argentini ben sanno.  Però anche rimanendo in Europa qualche cautela in più comincia ad essere necessaria. Per esempio, oggi, un titolo pubblico decennale (tipo BTP per intenderci) greco rende più dell’11 % l’anno, uno dell’Irlanda supera l’8%, del Portogallo quasi il 7%, della Spagna il 6% circa,  quando quello tedesco, ritenuto in assoluto il più sicuro (si intende per sicuro che alla scadenza verrà rimborsato), è sul 3%. Il maggiore rendimento è detto, non a caso, premio di rischio. Tradotto: si guadagna di più perché il rischio è maggiore. Quindi avvisati.

Certamente alcuni rendimenti sono sicuramente allettanti. Ma attenzione, perché secondo diverse proiezioni (Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale, ecc.) l’indebitamento di alcuni paesi, già piuttosto elevato rispetto al Pil, è destinato a peggiorare ulteriormente entro il 2015 (Grecia: dal 140 di oggi al 165% nel 2015; Irlanda: dal 97 al 125%; Portogallo: dal 83 al 100%; Spagna: dal 64 all’85%). Se l’indebitamento crescerà vorrà dire che potrebbero, i Paesi coinvolti, incontrare qualche difficoltà, soprattutto se l’economia non riparte,  a rimborsare i prestiti. E’ vero che l’Europa sta soccorrendo i Paesi in difficoltà, pare con successo visto la grande richiesta del prestito (bond) emesso a fine gennaio (per una offerta di 5 miliardi di euro c’è stata una domanda di 45 miliardi di euro. Questi fondi sono remunerati con un tasso del 2,8-2,9% e dati in prestito ai Paesi bisognosi al 5,8%), ma c’è pur sempre un limite. Anche per richiamare i Paesi interessati alle loro responsabilità.

Ma non finiscono qui i motivi per prestare attenzione a dove si investono i propri risparmi.  Nel 2011 verranno a scadenza, solo nel mercato italiano, circa 245 miliardi di obbligazioni* bancarie, che sommate ai 225 miliardi di Btp (Buoni poliennali del tesoro) che si prevede emetterà il Governo italiano, sempre nel corso di quest’anno, fanno un totale di 470 miliardi di euro da collocare. Una cifra che rappresenta il 13% di tutta la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane.  Questo vuol dire che, per effetto della forte domanda di prestiti proveniente dalle banche e dal Governo, ragionevolmente ci si può attendere un rialzo dei tassi di interesse. Com’è noto, se oggi compro un titolo che rende il 3% e domani ne esce un altro che da il 5%, il primo perderà valore perché nessuno comprerebbe un prodotto che a parità di prezzo rende meno. Quindi investire con cautela pensando anche al futuro prossimo.

Intanto i BOT ad un anno e a sei mesi dell’asta di febbraio rendono meno del mese prima, e sempre al di sotto dell’inflazione attuale che è salita al 2,1%.  Al contrario, il rendimento del BTP a cinque anni è in leggera salita (sta rendendo il 3,35% netto)  e al momento copre abbondantemente il rialzo dei prezzi.

Tra le alternative possibili c’è anche la Borsa. Ma anche qui ci vuole molta cautela. Nel 2010 le borse che sono andate meglio sono state quella argentina, indonesiana, thailandese e cilena (sono cresciute, in un anno, tra il 40 e 50%). Paesi lontani, che a parte la questione del cambio, sono però difficili da seguire, se non dedicandoci un’attenzione particolare.  In Europa è andata bene la borsa tedesca (+16%) e quella della Gran Bretagna (+ 10% circa), ma non quella italiana, che ha perso il 12%, e nemmeno quella spagnola (-20%) e greca (-35%). Ma anche tra gli andamenti negativi si possono trovare titoli di imprese che al contrario hanno reso bene. Bisogna saper scegliere con cura.

*L’obbligazione è un titolo di credito che conferisce all’investitore (risparmiatore/obbligazionista) il diritto a ricevere, a scadenze predefinite, il rimborso del capitale sottoscritto e una remunerazione a titolo di interesse.

I Bot rendono di più…ma attenti all’inflazione (Febbraio 2011)

I rendimenti dei titoli pubblici stanno crescendo (i BOT a un anno che nel gennaio 2010 rendevano lo 0,70% nel gennaio di quest’anno sono saliti a 1,83%; i BTP a cinque anni dal 2,60% di un anno fa a 3,26% di oggi) e vanno tenuti come punti di riferimento prima di considerare ogni altro investimento (perché a parità di rendimento sono i più sicuri).  Da tenere però presente che l’inflazione sta superando il 2% quindi, già oggi, il rendimento di un BOT annuale non la coprirebbe. Un BTP a cinque anni al momento si, ma per il futuro chissà.

Per proteggersi dall’aumento dei prezzi una possibile alternativa sono i Buoni Fruttiferi Postali serie J08, indicizzati all’inflazione italiana. Vuol dire che oltre all’interesse, la somma investita si rivaluta seguendo l’andamento dell’inflazione. Esempio: investo 100 con un rendimento dell’1%. Se dopo un anno l’inflazione è stata del 2%, il capitale sarà diventato pari a 102 (100 iniziali +2 per il recupero dell’inflazione), cui si sommerà il rendimento, che a quel punto diventa reale, cioè in più sull’inflazione. C’è solo un problema: per gli ultimi Buoni Fruttiferi emessi dalla Poste, questo meccanismo di recupero scatta solo dopo tre anni e vale per i rimanenti sette (i Buoni durano 10 anni). Sotto i tre anni c’è solo il rendimento nominale che viene indicato (il primo anno 1,15% lordo, che sale a 1,25% il secondo). Quindi meno dell’attuale inflazione. In ogni caso farsi spiegare bene il foglio informativo, non sempre di facile comprensione.

Le banche e i rischi da considerare (Gennaio 2011)

La retorica del mercato che dovrebbe regolare l’economia, cioè la vita di miliardi di persone, è tanto declamata quanto disattesa nella pratica. Perché alla fine, alla resa dei conti, c’è sempre qualcuno a cui il mercato applica regole speciali. Per esempio, tra una grossa banca e un semplice risparmiatore è molto probabile che a soccombere sia quest’ultimo,  e quando c’è da pagare l’insieme dei contribuenti.

Anche la voce grossa, per altro giustissima, contro l’eccesso di indebitamento pubblico che mette a repentaglio la stabilità  di molti paesi, spesso si fa più flebile quando in gioco ci sono le proprie banche. E’ capitato alla Cancelliera tedesca Merkel che ha dovuto ammorbidire di molto il suo rigorismo teutonico quando ha scoperto che diverse banche tedesche, a partire dalla Deutsche Bank, si erano esposte con l’Irlanda, tra prestiti a banche, imprese e privati,  per oltre 101 miliardi di euro.  Capendo che se l’Irlanda dovesse fallire (nel senso che non riesce a ripagare il suo debito come è capitato tempo fa all’Argentina) a rimetterci, con le banche, è anche il sistema economico-finanziario tedesco.

Discorso che, pur con diversi ordini di grandezza, vale anche per altri paesi, Italia compresa, dove non mancano le banche che hanno in portafoglio (hanno cioè prestato fondi) titoli pubblici di Stati a rischio come Irlanda, Grecia, Portogallo e Spagna.  A cominciare da Unicredit (1.600 milioni di euro), Intesa San Paolo (1.800 milioni), Monte dei Paschi (300 milioni) e la Banca Popolare dell’Emilia Romagna (240 milioni). Cifre importanti ma comunque non superiori a 3% del totale dei titoli pubblici nei loro portafogli, prevalentemente italiani, escluso la Popolare dell’Emilia Romagna dove arrivano quasi al 9%.

Per esattezza sono in mano straniera il 40% circa dei titoli pubblici italiani, la metà di quelli  tedeschi, poco meno dei due terzi dei francesi, ma ben il 70% dei titoli irlandesi e portoghesi, per finire con l’80% dei bond greci (dati Barclays Capital).

Se i paesi recupereranno il sentiero dello sviluppo che gli consentirà di cominciare a ripagare il debito le cose si potranno aggiustare, altrimenti non resta che attendere la prossima bolla. Perché, come la storia recente ha dimostrato, anche al debito c’è un limite, superato il quale il castello di carta crolla. Nel qual caso i primi ad andare giù  saranno proprio  i prezzi dei titoli pubblici, che nessuno vorrà più comprare se solo viene adombrata la possibilità che  potrebbero non essere rimborsati alla scadenza. E chi ce li ha lì dovrà, se ha fortuna, svendere.

Questo scenario, per niente stabile, consiglia quindi di muoversi con cautela e di valutare bene i pro e i contro di ogni investimento, tanto più se si volesse puntare a qualcosa di molto remunerativo.  Nell’ultima asta dei BOT di dicembre i rendimenti annuali sono saliti all’1,78%  contro l’1,57% di un mese prima.

Complementari o in alternativa dei titoli pubblici ci sono i Buoni Fruttiferi Postali indicizzati all’inflazione italiana Serie J07 che restituiscono l’aumento dei prezzi, più un rendimento netto alla scadenza dei dieci anni di qualche punto percentuale. Anzi, sembra che questa serie sia più conveniente delle precedenti J05 e J06, per cui esperti come il prof. Beppe Scienza (www.dm.unito.it/personalpages/scienza/index.htm)   suggeriscono di riscattarli per reinvestirli nella nuova.  Alternative ?  Piazza Affari, cioè la Borsa italiana, nel 2010 ha perso il 12%, quindi ha fatto peggio, però quella di Francoforte (il Dax30) ha guadagnato il 16%.  Azzeccarci è un esercizio complicato.

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