Ripartire dalle periferie  

L’esito dell’ultimo referendum, che in Romagna non è stato diverso dal resto d’Italia, ha espresso il  rifiuto delle riforme proposte, ma è stato soprattutto l’occasione per segnalare al Governo  il malessere diffuso in ampi settori della società.

Il Governo è stato bocciato soprattutto dalle “periferie sociali”, che sono quelle geografiche, il Sud e tanti quartieri abbandonati in troppe città,   ma anche da fasce di  popolazione tenute sempre più ai margini, dove il disagio sociale non accenna, se non minimamente, a diminuire. No a caso sono stati i giovani-adulti (25-34 anni), i disoccupati e i lavoratori precari ad esprimere il massimo del dissenso.

Poche settimane fa ha fatto scalpore la notizia di una bambina che a Udine,  non quindi in un’area disagiata, è svenuta in classe perché erano giorni che non mangiava. Il caso è venuto alla luce, ma ce ne sono tanti che non fanno notizia. A Milano, capitale economica d’Italia, ci sono addirittura venti mila bambini che devono saltare la cena perché le famiglie non hanno come nutrirli.

La Caritas regionale,  nel suo sesto Rapporto sulla Povertà in Emilia Romagna,  ci informa di un aumento della presenza di italiani tra le persone che accolgono. Presenza di connazionali che è arrivata, nel primo semestre 2016, al 36 per cento a Forlì-Cesena,  34 per cento a Rimini e  41 per cento a Ravenna, con una media regionale del 30 per cento.

Stiamo parlando di famiglie monoreddito o  rimaste senza reddito, persone sole, separati, esodati e ultracinquantenni che non riescono a trovare un nuovo lavoro, pensionati e  altri che rinunciano anche a curarsi per mancanza di risorse minime.

Con un po’ di umiltà, che poi è anche realismo, i Sindaci,  le Istituzioni locali e quanti hanno facoltà di indirizzo nelle politiche economiche locali, dovrebbero ripartire dagli esclusi e disegnare per loro nuovi e più efficaci percorsi di inclusione. Non di assistenza, o non solo, bensì di partecipazione attiva. A cominciare dal lavoro.