Rimini, dieci anni di economia. Tra passato e futuro. SINTESI

Di seguito una sintesi del volume, pubblicato in occasione del decennale del mensile TRE (TuttoRiminiEconomia).

Rimini: una demografia matura

 Sicuramente per  parlare di futuro non si può prescindere dall’aspetto demografico, cioè dalle persone. Questo è vero, in generale, per i paesi sviluppati, ma vale anche  per la realtà locale.  Perché la popolazione non ha uguali energie, vitalità,  voglia di intraprendere, stile di consumo,  necessità di servizi (pensiamo alla salute)  a tutte le età.  Con gli anni tante esigenze cambiano e questo ha ricadute sull’economia e la società.

Non sfugge a questa regola nemmeno la provincia di Rimini, dove le persone che hanno superato  65 anni  sono prossime  al 22 % della popolazione totale (costituita da 336 mila abitanti)  e quelle ultra settantacinquenni hanno superato l’11 %.  Con tutte le conseguenze sopra richiamate.  A cominciare dalla discesa, lenta ma inarrestabile, delle persone in età per lavorare, cioè che hanno tra 15 e 64 anni:  rappresentavano il 70% della popolazione nel lontano 1981, tetto massimo raggiunto dal dopo guerra,  si sono ridotte a meno del 64 % nel 2015.   Nei comuni dell’entroterra come Casteldelci, Pennabilli e Sant’Agata Feltria gli ultrasessantacinquenni hanno già oltrepassato la soglia del 25%, mentre a Rimini capoluogo sono il 23%, che diventa il 25 % se dal conteggio si escludono i residenti stranieri (che essendo più giovani, abbassano la media).  E’ dagli anni Novanta del secolo scorso che i giovani sono meno degli anziani.

Ma la situazione demografica provinciale sarebbe ancora più critica se in questi anni non ci fossero stati importanti  flussi migratori in entrata a compensare  l’invecchiamento e la bassa natalità dei locali.  Un dato per tutti: dal 1990 al 2014,  sono mancate oltre mille nascite per pareggiare i conti con i decessi.  Un saldo naturale che sarebbe stato ancora più negativo senza i figli degli immigrati, nati a Rimini, che oggi rappresentano il 18% di tutte le nascite del territorio.

In questo contesto va registrato, purtroppo, anche il fenomeno, in crescita, di tanti giovani riminesi che emigrano all’estero per mancanza di opportunità: dall’inizio della crisi sono stati poco meno di seicento. Sono quelli iscritti all’AIRE, ma potrebbero essere molto di più.

L’economia,  le imprese, l’innovazione e l’export

 Se l’Italia è ancora lontana dal recuperare il pil d’inizio crisi, non sta molto meglio l’economia locale che ha stento mantiene i propri numeri (valore aggiunto sopra 8 miliardi di €), perdendo però posizioni in Regione. A testimonianza che nella crisi ha fatto peggio.

Cambiamenti importanti, negli ultimi dieci anni, hanno riguardato un po’ tutti i settori, ma in modo particolare la manifattura, che ha perso un migliaio di aziende. Di conseguenza l’apporto dell’industria  al valore aggiunto provinciale  è sceso di cinque punti,  dal 17 al 12 %, mentre  i servizi, che comprendono anche il turismo, salgono  dal 76 all’80 %, dodici più del valore regionale.

Una divisione, quella tra manifattura e servizi, almeno certi servizi, più contabile che reale, perché già buona parte della catena di valore del secondario è oramai costituita proprio da servizi all’impresa (ricerca, marketing, comunicazione, design, ecc.). Questo vuol dire che disporre di certe industrie è un forte traino anche per servizi di alta qualità.

In ogni caso il territorio sconta una dimensione delle aziende molto piccola, tanto da essere più appropriato parlare di micro imprese, visto che il 95% cento non raggiunge i dieci addetti. Solo 19, delle oltre 34 mila imprese provinciali, che per la prima volta decrescono, superano i 200 occupati.

Un calo del numero delle imprese che sarebbe molto più pesante se non si fossero rimboccate le maniche, avviando nuove attività,  tante donne e immigrati (è loro una impresa su dieci), che in parte hanno tamponato le falle.   Meno bene vanno invece le start up, le nuove imprese innovative, dove Rimini è in fondo, come densità, alla classifica regionale.

Com’è facile prevedere, la ridotta  dimensione  rende più difficile innovare, competere, ma soprattutto affacciarsi ai mercati internazionali.  Anche se ci sono delle felici eccezioni.

Il confronto, in termini di investimenti, tra le imprese locali e il resto dell’Emilia Romagna è illuminante:  nel 2013, 41 mila euro è stato l’investimento medio di una impresa innovativa di Rimini, contro i 114 mila del dato regionale (quasi il triplo in più).

Non aiutano gli investimenti, tanto meno le giovani imprese, i tagli del credito bancario (pur essendo le banche piene di fondi), su cui pesano sofferenze che sono aumentate del 575% negli ultimi sei anni, con un numero di soggetti coinvolti pari agli abitanti  del comune di Morciano di Romagna.

Non meno significativa è la distanza tra le esportazioni provinciali e quelle regionali, pur rappresentando queste una importante componente della domanda:  52 mila euro è l’export per impresa a Rimini, nella quasi totalità manifatturiero, sistema moda in testa, contro 170 mila euro di Reggio Emilia (la prima in regione),  159 mila euro di Modena,  134 mila euro di Parma e 132 mila euro di Bologna.

Per contenuto tecnologico, solo il 42% dell’export riminese  del 2014, comunque in recupero sugli anni passati,  si può definire di “alta tecnologia”, a fronte però del 49 % dell’Emilia Romagna.  A conferma che, anche in tempi di crisi,  è l’innovazione  a  far vincere, non il ripiegamento su prodotti di bassa qualità, dove la concorrenza è maggiore e i margini di profitto minori.

Il poco export si traduce in un  tasso di apertura verso l’esterno dell’economia provinciale riminese – un indicatore che misura quanto le esportazioni e le importazioni (gli scambi internazionali) pesino sul valore aggiunto prodotto – che si ferma al 30%, quando la media dell’Emilia Romagna e del Nord Est è del 61%.  Rimini, cioè, è la metà meno aperta agli scambi con l’estero.

Il turismo “bloccato”

Nel mondo, nonostante le crisi, i viaggiatori internazionali continuano a crescere al ritmo del 4-5% l’anno, tanto d’aver superato, già nel 2014, il miliardo di arrivi alle frontiere. Di questo passo, l’Organizzazione Mondiale del Turismo (OMT) stima che nel 2030 ci saranno nel mondo 1,8 miliardi di viaggiatori (su una popolazione di circa 8 miliardi).

Questa crescita non sembra però interessare la Riviera di Rimini, che a fine 2014 (ma non è andata meglio nel 2015, salvo singole località), si ritrova con lo stesso numero di pernottamenti (circa 15 milioni) di dieci anni fa, ma due milioni in meno dei gloriosi anni Ottanta del secolo scorso.

Il buon andamento del turismo estero, 4 milioni di presenze, ha parzialmente compensato le perdite nazionali, ma anche questo è ben al di sotto dei 6,5 milioni di pernottamenti raggiunti sempre negli anni Ottanta.

Non decolla nemmeno il turismo dell’entroterra, già una piccola frazione di quello balneare, nonostante le promesse e gli investimenti fatti.

In controtendenza rispetto ai pernottamenti marciano invece gli arrivi,  che in provincia di Rimini sono passati da 2,6 milioni dell’anno 2000  a 3,2 milioni nel 2014, con un incremento del 20%.  Arrivi in crescita e pernottamenti fermi, o in calo, ci dicono che c’è stata una riduzione della permanenza media dei visitatori, che in effetti scende da 5,9  notti  del 2000  a 4,7 notti nel 2014. Ma questo è un fenomeno comune.

La riqualificazione delle strutture ricettive è innegabile, come dimostra la fuoriuscita dal mercato di oltre mille hotel delle categorie più basse. Ciononostante  gli hotel di fascia medio-alta, quelli più richiesti dalla clientela internazionale e non balneare, come congressi e fiere, rimangono ancora pochi: appena  il 7 % degli alberghi della provincia di Rimini, quando raggiungono il 15 % a Ferrara,  il 20 a Venezia, il 17 a Jesolo e il 26 % a Roma.

Un ritardo di innovazione confermato anche da una indagine  della Provincia di Rimini, di marzo 2015, da cui emerge che la metà delle imprese del settore (alberghi, ristoranti, agenzie di viaggio, ecc.)  non ha introdotto nessuna innovazione negli ultimi tre anni. Percentuale di otto punti più elevata della media delle strutture turistiche dell’Emilia Romagna.

Se a questo aggiungiamo che già qualche anno fa la Banca d’Italia era arrivata alla conclusione che i prezzi dei soggiorni negli hotel dell’Emilia Romagna erano competitivi con le altre regioni italiane, ma non con i concorrenti della Catalogna e delle isole greche, forse si comincia a capire perché il turismo ha smesso di crescere.    Nonostante le numerose iniziative di animazione che si programmano, le quali creano molto movimento (arrivi),  ma poca sostanza (pernottamenti), a giudicare dai risultati.   Senza considerare i messaggi che le stesse iniziative rischiano di veicolare, non sempre positivi  e che per tanti segmenti di mercato potrebbero risultare persino poco allettanti.  Una rifocalizzazione, magari con più spazio alla cultura (la motivazione culturale influenza quasi il 40% dei turisti internazionali che visitano il nostro Paese), al benessere, alla qualità e alla tranquillità dell’ambiente, potrebbe essere la strada da imboccare per non perdere ulteriore terreno.

Il lavoro che continua a mancare

Se l’economia locale non cresce e le imprese diminuiscono, le ricadute sull’occupazione sono inevitabili.  Infatti calano gli occupati (da 139 mila del 2011 a 135 mila nel 2014) e crescono i disoccupati, che da 12 mila nel 2011 sono diventati 17 mila nel 2014, raggiungendo  un tasso di disoccupazione (persone che vorrebbero lavorare ma non trovano) che supera l’11%, circa tre punti in più del dato regionale.

Ma se a queste cifre, aggiungiamo i cassaintegrati a zero ore e gli scoraggiati, che il lavoro hanno smesso di cercarlo, i senza lavoro potrebbero salire di ulteriori 9 mila unità, portando il totale dei disoccupati, in provincia di Rimini,  a superare le 26 mila persone. Numero che fa  schizzare il tasso di disoccupazione a quasi il 17 %: dopo Ferrara,  il secondo tasso di sottoutilizzo della forza lavoro più elevato dell’Emilia Romagna.

Il risultato è una divaricazione crescente, diventata cronica, tra il  tasso di occupazione di Rimini (numero degli occupati in rapporto alla popolazione in età da lavoro) e quello medio regionale: nel 2014, 61%  il primo, a fronte del 66 % del secondo.  Cinque punti di differenza.

Ancora più preoccupante è il tasso di disoccupazione dei giovani tra 18 e 29 anni che, per Rimini, tra il 2007 e il 2014 è quasi triplicato, salendo dal 10 a poco meno del 28% (il 32 % per le donne).  Anche questo quasi cinque punti sopra il dato dell’Emilia Romagna.

Ad  ulteriore conferma che i giovani, anche se  muniti di formazione universitaria, hanno sempre trovato in questa territorio scarse opportunità d’impiego,  c’è la distanza, risalente all’anno duemila, quindi tutt’altro che recente, che separa il numero annuale dei laureati residenti (1.400 circa),  di cui la maggioranza costituita da donne, dalle richieste che salgono dalle imprese private presenti (mai più di 400).  Una domanda di laureati, quella delle imprese locali, molto bassa  e ben lontana dai valori espressi dalle altre province regionali.  Che si traduce, anche, in una minore presenza, nelle nostre aziende,  di quadri e dirigenti. I profili, cioè, di più alto contenuto professionale e  meglio pagati.

Non c’è quindi da sorprendersi se i salari lordi medi sono a Rimini i più bassi dell’Emilia Romagna (27,5 mila contro 29,8 mila euro di media, con punte di 31,2 mila euro a Parma).

Costruire il futuro, prendendo spunto dal passato

C’è stata la crisi, ma ci sono criticità strutturali precedenti, che non sono state mai affrontate .  La prima, e più importante, sicuramente riguarda il deficit di opportunità lavorative e imprenditoriali per i tanti giovani che investono in formazione, universitaria e non.  E’ vero che il problema è generale,  ma a Rimini c’è qualche ritardo in più da colmare. Considerando anche la presenza, importante, di un settore turistico ad alta intensità di lavoro, ma bassa propensione ad assumere figure di formazione universitaria  (nel 2015, secondo l’indagine Excelsior, se ogni cento assunzioni previste dall’industria meccanica ed elettronica i laureati erano16, nel turismo scendono a 0,6).

Tante imprese, ma piccole, sono un serio ostacolo per innovare, fare ricerca, uscire dai confini locali e proiettarsi nei mercati internazionali.  Ci sono delle eccezioni, importanti e valide, ma sono troppo limitate per invertire una tendenza.

Senza una ricollocazione del profilo economico di questo territorio, che vuol dire investire  di più nelle imprese innovative, vecchie e nuove, turistiche e manifatturiere, che il prof. Zamagni chiama  ad “alta potenzialità di crescita”, offrire nuove e buone opportunità di lavoro sarà molto difficile.

La società e la politica locale, a partire dai punti di forza e di debolezza evidenziati, deve dotarsi di un progetto  di sviluppo di medio-lungo termine, che è insieme imprenditoriale ed occupazionale.

Perché un lavoro migliore può nascere solo da imprese che investono, fanno e producono innovazione,  per un mercato sempre più globale.  Queste imprese, tanto più se promosse da giovani creativi e intraprendenti, ce ne sono tanti,  vanno supportate e sostenute con decisione.

Scelte che richiedono una selezione delle priorità e  dei “bacini imprenditoriali-occupazionali” su cui investire in forma prioritaria.  Rivisitando anche alcuni mestieri dal sapore tradizionale, ma oggi molto attuali e con un mercato in crescita, come sono tante professioni artigiane che rischiano di scomparire.

Rimini, 10 dicembre 2015

One thought on “Rimini, dieci anni di economia. Tra passato e futuro. SINTESI

  1. TRE per dieci. Rimini e l’economia.
    Un volume edito da “il Ponte”.

    In «Rimini, dieci anni di economia. Tra passato e futuro», Primo Silvestri offre un’antologia accurata del lavoro suo come direttore, e della redazione che lo affianca nel mensile «TRE» («TuttoRiminiEconomia»), per le edizioni de «il Ponte», settimanale riminese che lo offre in allegato ai lettori ed a 1.500 aziende del territorio.
    Sono tanti gli argomenti esposti in queste 120 pagine, con l’occhio attento ai dati di fatto, per cui il lettore paziente può ricostruire una specie di carta geo-economica, osservando le realtà in movimento, quelle in crisi, e quelle che si annunciano come novità nel mercato del lavoro.
    Per quanto m’interessa, ho letto con piacere alcune righe molto schiette sull’industria culturale di Rimini, caratterizzata dal fatto che la nostra città non ha saputo valutare correttamente le proprie potenzialità, «quindi ricavandone meno di quello che sarebbe possibile» (p. 66).

    Appartengo ad una generazione che ha visto Rimini nei primi anni ’50 attivarsi per un impegno culturale legato al turismo, sia per “allungare” (come si diceva allora) la “stagione” dei bagni, sia per valorizzare un patrimonio artistico a cui non è esagerato attribuire un significato europeo. Come quel Tempio malatestiano la cui riconsacrazione, dopo i lavori post-bellici, fu accompagnata da una famosa «Sagra Musicale» organizzata da Carlo Alberto Cappelli.
    Quella Sagra delle origini è oggi finita nel dimenticatoio, con addirittura un cambio di “padrinato” (se così si può dire), attribuito a chi allora non ebbe nessun ruolo al di fuori del botteghino dei biglietti d’ingresso, affidato al cav. Primo Gambi ed al suo personale.
    La storia economica di Rimini è fatta anche di queste amare annotazioni che vanno ricordate, per comprendere quanto ci ha portato alla realtà di oggi, che nel cap. quinto («Cultura è competitività») del volume di Silvestri si sottolinea giustamente.

    Al proposito segnalo l’altrettanto attenta analisi apparsa, in forma di intervista al prof. Attilio Gardini, nel n. 5 di «Socialmente Carim» (aprile 2015), soprattutto per il passo dove si legge che la crisi del turismo riminese «è attribuibile a carenze specifiche locali, perché la domanda è tuttora crescente a tassi sostenuti».
    Le nostre potenzialità non sono valorizzate per fattori e limiti strutturali, e per errori nella comunicazione. Così, l’offerta riminese, in vari settori tra cui appunto la cultura, è entrata in crisi con «danni rilevanti», sia nel contesto aziendale sia in quello sociale («disoccupazione, denatalità, migrazioni, ecc.»).

    Il lavoro di Silvestri e dei suoi giornalisti è introdotto da Stefano Zamagni (mio compagno di banco nell’indimenticabile prima media con il prof. di Lettere Romolo Comandini).
    Zamagni offre un duplice itinerario da percorrere, per migliorare lo stato delle cose.
    Il primo riguarda l’amministrazione «condivisa» tra l’ente locale e le espressioni della società civile, per disegnare assieme il sentiero di sviluppo.
    La seconda strada, che deve correre parallela all’altra (ma che si dovrebbe iniziare a costruire per prima, secondo il mio modesto parere), è il «movimento di amicizia civica fondata sul rispetto, la collaborazione e la condivisione».
    È un bene, mi permetto di concludere, che finalmente anche gli economisti, talora molto dogmatici nelle loro enunciazioni teoriche, s’accorgano come lo spirito del dialogo, invocato dai filosofi e non soltanto da oggi (non per nulla la formula di «amicizia civica» risale ad Aristotele), sia fondamentale per una società in cui tanti grandi fatti economici sono stati favoriti da interventi finanziari “dall’alto”, e non soltanto a Torino (Fiat) ma pure a Rimini, circa mezzo secolo fa.
    Si avviarono mitologie personalistiche che hanno favorito uno strapotere “burocratico” nella vita pubblica ed in quella finanziaria, in virtù di “racconti” mai tramontati, creando illustri genealogie da antico regime e non da matura democrazia.

    Quindi, cerchiamo tutti di realizzare questa «amicizia civica» di cui parla l’amico Stefano Zamagni, se quelli che detengono i vari poteri ce lo permetteranno. Del che, dubito fortemente, non per innato pessimismo, ma per documentazione storica da tutti reperibile.

    Nota bibliografica.
    «L’amicizia civica in Aristotele» è un saggio del prof. Letterio Mauro del 2013, in «Nuova Umanità», XXXV (2013/4-5) 208-209, pp. 457-468.
    Il 7 maggio 2015 a Perugia si è tenuta una tavola rotonda sul tema «Società civile, fraternità e dialogo interreligioso: prospettive di un nuovo umanesimo», richiamando la riflessione politica di Jacques Maritain.
    Già nel 2010 Andrea Luzi a Vicenza ne aveva trattato ad un convegno intitolato «Caritas in veritate: manifesto per un nuovo umanesimo».

    Antonio Montanari

    (c) RIPRODUZIONE RISERVATA
    20.12.2015

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