Lavorare per il fisco

di Alessandra Leardini

Mario è un impiegato riminese che guadagna 1.300 euro netti al mese. La sua busta paga registra in un anno (con tredicesima e quattordicesima) un reddito lordo di 24.500 euro. Oltre la metà di questo reddito se ne va in tasse, ossia oltre 12.600 euro, il 51%. Ogni mese il nostro lavoratore dipendente deve così versare al fisco (e agli altri enti impositori) circa 1.052 euro del proprio reddito. Per vivere gliene restano 990. In sostanza, 188 giorni del suo anno lavorativo vengono impiegati non per guadagnare, ma per pagare tasse e balzelli.
La situazione di Giovanni, anch’egli lavoratore dipendente, non è più rosea. Con un reddito netto mensile di 2.500 euro e un reddito complessivo lordo annuo di oltre 56mila euro, lascia ogni anno allo Stato e ad altri enti impositori addirittura il 55% delle sue entrate, ossia 30.700 euro, vale a dire 2.560 euro ogni mese. Per sé e la sua famiglia restano appena 2.140 euro mensili. Con questi numeri, per pagare imposte dirette e indirette gli servono ben 199 giorni del suo tempo annuo lavorativo.

Ancora più impressionante è la pressione fiscale con cui deve fare i conti Marco, libero professionista. Marco ritrae dalla propria attività un reddito lordo (utile d’impresa) pari a 24.500 euro. Supponendo per Marco un tenore di vita simile a quello di Mario e Giovanni, la fetta di reddito che se ne va via in tasse è addirittura del 62,7%. Due terzi della torta. E questo senza contare le singole imposte che Marco ha già assolto nello svolgimento della propria attività di impresa tra diritto annuale di iscrizione alla Camera di Commercio, contributo obbligatorio Conai, imposta di bollo sui libri contabili, eventuali tasse e accise sui carburanti, energia elettrica e Irap. Per vivere, in soldoni, gli resta appena il 37,3% del reddito. Ogni mese lascia allo Stato 1.280 euro e può usarne per i consumi di tutti i giorni appena 761. Una miseria. Il risultato è che su 365 giorni di un anno gliene servono ben 229 per pagare imposte e balzelli. Solo il lavoro che svolgerà dal 20 agosto al 31 dicembre sarà destinato al budget familiare.

Il quadro che emerge da questi tre casi non è fantascienza, ma è il frutto dell’indagine statistica realizzata dalla Fondazione dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Rimini e presentata alla sede dell’Ordine dei Commercialisti di Rimini. Già l’anno scorso, con la prima edizione di questo studio sulla pressione fiscale, la Fondazione aveva messo in luce un prelievo fiscale, sui lavoratori dipendenti, “talmente impressionante da sfuggire al buon senso”, per usare le parole del presidente della Fondazione, Giuseppe Savioli. Quest’anno, non solo si è ripetuto lo studio sui redditi da lavoro dipendente, ma si è introdotta anche l’indagine sui lavoratori autonomi, con risultati ancora più sorprendenti.

Prof. Savioli, com’è possibile una situazione di questo tipo? Rimini è in linea con il resto del paese?
“Si, Rimini è in linea con il resto del Paese e l’Emilia Romagna non si discosta dalla media delle regioni italiane. La pressione fiscale è salita notevolmente negli ultimi dieci anni a causa del necessario risanamento dei conti pubblici e della crisi economica in atto. In sostanza, poiché lo Stato non riesce a ridurre le proprie spese, anche in periodi di recessione, chiede maggiori tasse ai cittadini”.

Come è arrivata, la Fondazione dei Commercialisti di Rimini, a stimare i prelievi sui nostri Mario, Giovanni e Marco? Per fare una maggiore chiarezza, di quali stili di vita parliamo?
“Abbiamo ipotizzato la ‘busta paga’ di due lavoratori dipendenti, che abbiamo convenzionalmente chiamato Mario e Giovanni, con un reddito mensile, rispettivamente, di 1.300 e 2.500 euro. Alle imposte che i due si vedono trattenere ogni mese direttamente al momento dell’erogazione dello stipendio, abbiamo aggiunto tutte quelle che quasi inconsapevolmente tutti paghiamo ogni giorno, da quando al mattino prendiamo un caffè al bar a quando, alla sera, accendiamo la televisione per un momento di meritato riposo, l’IVA su ogni acquisto che facciamo, le imposte sulla casa, le accise sui carburanti, le imposte sulle assicurazioni, i ticket sanitari, le tasse scolastiche, il canone Tv, ecc., sino all’impressionante numero di cento tasse. Il risultato è impressionante. Il sig. Mario, che con il reddito che percepisce fatica a garantire il diritto allo studio al proprio figlio e non può concedersi vacanze, lascia allo stato il 51,5% del proprio reddito. In altri termini lavora per 188 giorni, sino al 10 luglio per pagare imposte. Il Sig. Giovanni lascia allo stato quasi il 55% del proprio reddito, lavorando ben 199 giorni, cioè sino al 20 di luglio per pagare le imposte”.

Quali sono le tasse e imposte che incidono maggiormente? E nel caso di un lavoratore autonomo?
“Sia nel caso di lavoratori dipendenti che autonomi le imposte che incidono maggiormente sono quelle indirette, ossia quelle sui consumi; quelle che paghiamo inconsapevolmente ogni giorno.
Il caso del lavoratore autonomo, ossia di un piccolo imprenditore con un reddito lordo imponibile pari a quello del dipendente signor Mario è addirittura paradossale per l’ulteriore componente derivante dai contributi previdenziali ed assistenziali (che nel caso del dipendente paga in gran parte il datore di lavoro): il proprio carico fiscale arriva addirittura a circa il 63%, quasi i due terzi, con un ammontare di reddito utilizzabile per le proprie esigenze di vita pari al solo 37% circa di quello complessivamente prodotto. In altri termini, un lavoratore autonomo deve lavorare per 229 giorni, ossia sino al 20 agosto, per pagare le tasse”.

C’è qualche differenza tra i nostri comuni?
“Il carico fiscale operato dai nostri comuni si colloca all’interno della media nazionale, con non molte differenze fra gli stessi”.

Come pensare, di fronte a questi risultati, che possano riprendere i consumi?
“Con prelievi fiscali di questa portata evidentemente i consumi sono estremamente compressi. Ma, mi lasci dire, anche il lavoro, sia dipendente che autonomo, ne esce estremamente mortificato. Pare quasi di essere chiamati, per la maggior parte del nostro tempo, a lavorare per mantenere le spese dell’apparato pubblico”.

Da anni la Fondazione conduce anche uno studio sulle società di capitale che nell’ultimo anno ha fatto emergere come il prelievo fiscale arrivi a pesare sulle imprese locali per una percentuale addirittura superiore al 100% degli utili. In tasse se ne va tutto ciò che si guadagna e anche una parte del capitale che così non può essere reinvestita in progetti di sviluppo… Era il 107% sui redditi d’impresa nel 2012. La situazione è migliorata negli ultimi anni?
“Le sue informazioni sono corrette. La situazione non è migliorata, ma anzi è peggiorata a causa della crisi economica, che ha ulteriormente ridotto i risultati delle imprese. Poiché vi è un’imposta, l’IRAP, che si paga anche quando l’impresa perde, il carico fiscale arriva a percentuali superiori al 100%. Ciò significa che lo Stato non preleva una quota di utile, che non c’è, ma una parte del capitale investito dall’imprenditore, circostanza evidentemente assurda e contraria ad ogni principio di buonsenso, ancor che di razionalità economica”.

Dal suo osservatorio, il governo Renzi sta facendo qualcosa per migliorare questa situazione?
“Dai primi segnali che riusciamo a scorgere, il governo Renzi si sta muovendo, timidamente e con alcune contraddizioni, sulla strada del contenimento del prelievo fiscale. Ma anche la strada imboccata da Renzi non potrà portare e a nessun risultato apprezzabile se non si incide sul motivo primo dell’enormità del prelievo fiscale: la riduzione della spesa pubblica: nello specifico, tagli sui stipendi della Pubblica Amministrazione, pensioni (nel caso di quelle più alte) e acquisto di beni di consumo, in particolare in ambito sanitario”.

Il Federalismo fiscale non ha portato alcun vantaggio alle imprese e ai cittadini?
“I dati consuntivi sul federalismo fiscale sono sconfortanti: la moltiplicazione dei centri di spesa ha portato ad una esplosione della spesa pubblica e dei connessi prelievi tributari necessari a finanziarla. La stessa Corte dei Conti certifica che negli ultimi 20 anni la quota delle entrate locali su quelle della pubblica amministrazione si è più che triplicata”.