In un anno persi 6 mila posti di lavoro

Ascoltare che l’economia nazionale non riparte (siamo allo zero virgola qualcosina, ed ogni previsione abbassa la precedente)  e  che per il lavoro le notizie non sono migliori crea sicuramente qualche preoccupazione, ma  non tanto quanto  ascoltare il vicino che lo ha perso o non lo trova, il proprio figlio/a costretto/a a rincorrere lavoretti senza prospettiva,  oppure, direttamente, avere visto la propria azienda chiudere.

Una brutta notizia generale chiama l’attenzione, ma quando la stessa ci coinvolge direttamente  la preoccupazione assume connotati  diversi, perché penetra più in profondità.

Questo è il caso della situazione del lavoro in provincia di Rimini, alla ripresa d’autunno e dopo un’estate metereologicamente non andata al massimo.   In un anno, dal 2012 al 2013, sono andati persi sei mila posti di lavoro e gli occupati sono scesi da 140 a 134 mila.  Ma se il confronto si fa col 2011, quando si raggiunsero i 142 mila occupati, i posti cancellati in provincia diventano otto mila.  Per avere una idea è come se fosse scomparso dalle mappe geografiche  un  paese della dimensione di   Morciano di Romagna o  Novafeltria.

Sono numeri che devono far riflettere perché sono il contributo locale alla grande crisi  che ci coinvolge  tutti da ben  sei anni.  Con questi  numeri, a Rimini,  i senza lavoro, vecchi e nuovi, sono arrivati a 17 mila, in crescita costante dal 2011, non a caso in coincidenza con la caduta verticale degli occupati.

Ma se il fenomeno  della mancanza di lavoro è nazionale, cosa che non ne diminuisce la gravità, Rimini, nei confronti del resto dell’Emilia Romagna,  ha una sua specificità in più, non proprio positiva: il divario del suo tasso di occupazione da quello regionale, che altro non è se non il numero delle persone occupate in rapporto alla popolazione in età per lavorare (15-64 anni), da sempre più basso, è tornato ad ampliarsi, dopo una fase, culminata nel 2011, di relativo avvicinamento.  Per cui a fine 2013 sono occupati un po’ meno di 61 persone ogni cento in provincia di Rimini, quando  la media dell’Emilia Romagna è di 66 ogni cento.  La crisi è per tutti, ma le ricadute possono variare, dipendendo dalle caratteristiche economiche dei territori.

Per Rimini sicuramente una debolezza in più da rimediare, con politiche di sviluppo adeguate ed in grado di offrire nuove e migliori opportunità per tutti.

L’esercito degli inattivi

Qualcuno per scelta ma tanti  per mancanza di alternative, quando il lavoro non c’è  cresce l’esercito degli inattivi, cioè delle persone che pur avendo l’età per lavorare non si impiegano e, scoraggiati dalle tante porte chiuse,  smettono perfino di cercarlo.

Sono gli inattivi involontari, il cui numero è diminuito fino al 2012,  per impennarsi nel 2013 (non a caso in coincidenza del crollo dell’occupazione), quando hanno raggiunto il massimo storico di 68 mila unità, quasi una persona in età da lavoro su tre , per un tasso di inattività del 31,3 per cento.

Ed anche qui bisogna sottolineare la diversità, sempre in negativo, della provincia di Rimini dal resto delle province dell’Emilia Romagna. Confrontata con Bologna, oppure Ravenna, per restare in Romagna,  il tasso di inattività di Rimini è ben cinque punti superiore.  Solo Piacenza, al 29 per cento nel 2013, si avvicina  al nostro dato provinciale, mentre tutti gli altri hanno tassi abbondantemente  ad di sotto.

La conferma, se ce n’era bisogno, di un deficit  di opportunità che non consente a tante persone, più che nel resto della regione, di  poter contare con un lavoro degno di questo nome.  Colpa della crisi sicuramente, ma anche di carenze  strutturali  che  preesistevano.  Senza questa presa di coscienza sarà difficile approntare soluzioni adeguate, che consentano all’occupazione di risalire la china