Le dimissioni in bianco delle donne

di Marzia Caserio

Dietro la promessa, l’inganno. Prima si firma l’atteso contratto e subito dopo, spacciata come un pro-forma, arriva la lettera delle dimissioni da sottoscrivere. Un paradosso: mentre si viene assunti allo stesso tempo si viene dimissionati. La pratica, meglio conosciuta come “dimissioni in bianco”, è una delle piaghe più sommerse e invisibili del mercato del lavoro italiano che coinvolge per il 60% lavoratrici donne. I motivi per essere “cacciati”, in maniera totalmente illegale, possono essere i più disparati: i più frequenti sono la nascita di un figlio, una malattia, l’età, i rapporti con il sindacato e lo stile di vita.

Stringendo il campo sulla nostra realtà territoriale Rimini non fa di certo una bella figura. I sindacati Cisl e Cgil parlano di circa il 20-25% di contratti a tempo indeterminato all’anno gestiti con le dimissioni in bianco. Una forma di ricatto che non riguarda solo la manodopera operaia ma anche personale delle piccole e medie imprese al di sotto delle cinquanta unità. Il più martoriato, anche perché il più ampio, è il settore turistico che sul 25% del totale si prende un abbondante 70%: contratti irregolari, ore di lavoro in nero, stagionali sottopagati e per concludere tante, ma tante dimissioni in bianco.

“Purtroppo è un fenomeno diffuso difficile da estirpare”, spiega Silvia Zolli, consulente Cigl, “a farne le spese non solo le donne che decidono di avere dei figli ma anche altre categorie più deboli”. In questo panorama sconsolante, secondo la Zolli, “è ancora più avvilente vedere la normalità con cui i lavoratori accettano tutto questo. E’ come se ci fossero abituati, senza pensare che stanno sottraendo loro un vero diritto. Capisco anche che di questi tempi di fronte a un contratto sia difficile dire di no”. E tira in ballo la legge 188 del 2007, approvata all’unanimità, che stabiliva modelli, date e termini adeguati a non ricadere nell’inciviltà. Le legge si ispirava all’articolo 35 della Costituzione, ma è stata, nonostante il voto, osteggiata da alcuni e poi cancellata dal governo nel 2008 con un’ altra legge (la 133 del 6 agosto, articolo 39, comma 10) a meno di un anno dall’approvazione. “Purtroppo quella legge non esiste più – prosegue Zolli -. Era l’unica a garantire giustizia e civiltà”. Ora, invece, per tutelarsi, il lavoratore può fare affidamento a poche modalità. La prima arriva dalla Cgil. “Appena firmate le dimissioni, il lavoratore può inviarci una lettera dove racconta ciò che è successo. La lettera non verrà aperta ma custodita in cassaforte qualora il datore di lavoro dovesse dimissionare”. In questo modo il dipendente ha l’opportunità di rivedersi riconosciuto almeno il licenziamento con tutto quello che ne comporta a livello economico. Un’altra furbizia è quella delle dimissioni con data certa, “diffusa nei contratti del terziario, soprattutto nel settore turistico dove per legge le dimissioni si danno con raccomandata con ricevuta di ritorno”, spiega Gianluca Bagnolini di Fisascat Cisl.

Qualora il lavoratore avesse firmato la lettera in bianco, deve sapere che nel momento in cui il datore gli dà le dimissioni, avrà la possibilità di impugnarle perché non rispettano le modalità di consegna. “Se i dipendenti conoscono questa regola è più facile tutelarsi”. Un altro correttivo di tipo più tecnico è quello di andare all’Ufficio anagrafe e fare una dichiarazione sostitutiva di notorietà nella quale si attesta che il tal giorno è stata firmata la lettera delle dimissioni. E’ un piccolo stratagemma che funziona, “che però non sempre è conosciuto da parte dei lavoratori”.