Lavoriamo per il capo

di Alessandro Notarnicola

“Lavoriamo per il capo”. Erano soliti rispondere con questa formula gli operai interrogati dai carabinieri che, nel corso di un’indagine portata avanti negli ultimi mesi del 2018, lo scorso ottobre hanno denunciato un ennesimo caso di caporalato nel territorio della provincia di Forlì-Cesena. Un’operazione che ha portato all’arresto di 2 imprenditori di origine magrebina, titolari di un’impresa cooperativa di intermediazione del lavoro, con l’accusa di sfruttamento del lavoro e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma non è la prima volta che casi di questo tipo vengono portati alla luce, tanto che resta alta l’attenzione dei sindacati sul tema soprattutto dopo che l’Istat ha chiarito che negli ultimi anni è cresciuta, anche sul territorio provinciale, l’economia non osservata, ovvero il complesso di fenomeni economici che fanno riferimento ad attività sommerse, evasione fiscale ad esempio, e illegali, dal traffico di droga alle agromafie fino al caporalato. Nell’area di Forlì-Cesena sono attive circa 9.680 aziende agro-alimentari, di cui 7.630 a vocazione strettamente agricola con una prevalenza per le colture orto-frutticole e della viticoltura. Stando ai dati contenuti nel “Quarto rapporto sulle Agromafie e il caporalato” elaborato dall’Osservatorio Placido Rizzotto, i lavoratori complessivi occupati in agricoltura ammontano a 16.370 sul territorio provinciale. Si tratta soprattutto di lavoratori stagionali (14.965), mentre 1.400 sono quelli occupati a tempo determinato, tra loro il 55,3% sono italiani, il restante stranieri. Tra le unità straniere i molti arrivano dal continente africano, ma non mancano lavoratori provenienti dall’Est Europa spesso impiegati senza tutele e alcuna formula di contratto e per questo tenuti in semi schiavitù ammassati in piccoli appartamenti e monitorati da caporali. “Sono circa dieci anni che abbiamo incrociato il problema e ci impegniamo su questo fronte. In questi anni il caporalato ha avuto una diffusione preoccupante e non residuale dall’agricoltura alla zootecnia, anche se abbiamo incontrato casi nei trasporti/logistica, in edilizia e nel settore turistico (alberghi e ristoranti)”. A dirlo è Arturo Zani, segretario generale Flai Cgil  Cesena, che spiega come in questi ultimi settori agiscono, in appalto, le cooperative spurie, o società costituite ad arte che offrono lavoro e manodopera sottopagata, in nero in tutto o in parte. Uno sguardo rivolto a questo fenomeno del lavoro nero nei campi lo ha Galass Thiam, cinquantenne di origine senegalese arrivato in Italia nei primi anni ’90 e impiegato da sempre nel mondo dell’agricoltura tra la Toscana e la Romagna. “Personalmente – racconta Thiam – non sono mai stato vittima di caporalato. Ho iniziato a lavorare nelle serre per funghi: le nostre condizioni erano dignitose, anche se tutte le spese erano a nostro carico. Oggi invece spesso parlo con amici che sono sotto un caporale e che non denunciano per timore di perdere il lavoro. Molti – prosegue il  senegalese oggi dipendente dell’azienda ‘Pollo del Campo’ di  Forlì – lavorano per cooperative e sono pagati poco, 4 euro l’ora, pur lavorando oltre dieci ore al giorno. Sono uomini giovani, che vanno dai 30 ai 50 anni”. Per Thiam molti tra gli operai impiegati a nero inizialmente non conoscono i diritti del lavoratore e dunque non sono consapevoli di essere sfruttati. “Lavorano – spiega – ma non sanno cosa subiscono”.