Emigrano da Rimini

Intervista a Primo Silvestri, direttore TRE, a cura di Simone Santini

Nella statistica si afferma che è “impossibile dire se questo sia correlato ad un fenomeno di disagio dovuto a mancanza di opportunità o, invece, ad un sintomo di vivacità culturale che spinge i nostri connazionali oltre confine”. Cosa pesa di più secondo te?

Gli italiani residenti all’estero, ed iscritti all’AIRE (Anagrafe Italiana Residenti all’Estero), quindi non tutti, che erano poco più di 3 milioni nel 2006, hanno superato quota 5 milioni a fine  2017, l’8,5% dell’intera popolazione nazionale, con un aumento di ben il 65 % nell’ultimo decennio.  Solo nel 2017 hanno lasciato l’Italia, per dirigersi prevalentemente in altri paesi d’Europa, 130 mila persone. Il 37,4% di chi è partito ha tra i 18 e i 34 anni. I giovani adulti, ovvero le persone tra i 35 e i 49 anni d’età, sono il 25% del totale (poco più di 32 mila persone). Che la crisi c’entri qualcosa è più di una certezza.

Gli iscritti AIRE provenienti dalla provincia di Rimini sono attualmente circa 23 mila, la cifra più alta della Romagna e pari al 7% della popolazione. Di questi 10 mila provengono dal Comune di Rimini, in Regione il comune col numero più alto dopo Bologna, 2 mila circa da Riccione e poco più di mille da Verucchio.

Ma per dire che anche qui la crisi c’entra basta guardare i numeri: nel 2007, quindi prima che scoppiasse la crisi, le richieste di cancellazione all’anagrafe per trasferimento  all’estero, da qualsiasi comune della provincia,  erano 247, a fine 2016 sono diventati  982, divisi quasi a metà tra uomini e donne. Nel tempo della crisi i riminesi espatriati sono cioè cresciuti quattro volte.

Concentrandosi sulle opportunità in patria, quanto influisce la natura propria della nostra economia locale, turistica e quindi stagionale? Può essere un elemento che si scontra con le esigenze di stabilità dei giovani?

Abbiamo visto che la crisi ha avuto il suo peso, ma esistono debolezze strutturali che preesistevano e che la crisi ha solo accentuato. Alcune: un occupato locale (discorso che vale per l’intera Romagna) produce meno valore, quindi prende anche un salario più basso, perché per troppo tempo abbiamo sopravvalutato il turismo, che è un bene certamente da conservare e migliorare, riducendo quasi al silenzio la manifattura, anche per responsabilità degli imprenditori.  Dimenticando che nel turismo (questo turismo) si lavora in media 4 mesi l’anno, contro i 12 dell’industria, ed il salario medio giornaliero è di 60 euro, quando nella manifattura è di 90 euro (dati Inps).

Un sistema economico così fatto produce una domanda di laureati che è la più bassa della Regione, in genere sotto il 10 per cento delle assunzioni. Stiamo parlando di 1.500-1.600 giovani residenti che si laureano ogni anno, a fronte di una domanda da parte delle aziende che raramente arriva a 500. Una forbice che viene da lontano.  Scarsa domanda, uguale poche opportunità. Colpa anche della mancanza di gestione del mercato del lavoro, di cui nessuno sembra volersi farsi carico, in verità spetterebbe al Pubblico, per cui tante imprese cercano ma non trovano, nonostante la disoccupazione.

Conseguenza:  i migliori se ne vanno ed è difficile che possano tornare, fino a quando il territorio non offrirà migliori opportunità, di lavoro ma anche per fare impresa. Perché negli ultimi sei anni le imprese fondate da giovani sotto i 35 anni sono calate, a Rimini, di mille unità.

Dare maggiori opportunità ai giovani significa rilanciare l’economia locale. E dare segnali in questo senso. In quest’ottica, come giudichi la “fuga dei soci” da Uni.Rimini? Quanto può influire questo, sia economicamente sia a livello di percezione da parte dei giovani riminesi?

Lo sviluppo di Rimini e della Romagna va interamente riformulato. Per cominciare basta farsi una domanda molto semplice: vogliamo continuare ad essere la parte ritardataria dell’Emilia Romagna o aspiriamo a metterci quanto meno in pari con la componente emiliana ?  Se vogliamo recuperare  le differenze dobbiamo allora pensare  a come promuovere e incentivare attività di alto valore aggiunto. Che producono cioè più ricchezza. Ci vogliono infrastrutture, investimenti, tanta ricerca e anche tanta innovazione.  Il turismo va reso più competitivo (non è un caso se oggi abbiamo le stesse presenza di vent’anni fa), sviluppando anche nuovi segmenti di offerta, la manifattura va non solo supportata , ma vanno favoriti nuovi insediamenti, soprattutto quella che meglio compete con l’estero.

E’ un progetto che richiederà almeno un decennio, ma solo così miglioreranno le opportunità per tutti, compreso i giovani che sono, demograficamente, sempre meno.

La fuga dall’Università, sbagliata, in una economia sempre più fondata sulla conoscenza, è anche un sintomo di una presenza ancora poco incisiva.  Anche per la mancanza di facoltà tecniche, come corsi di ingegneria, che avrebbero potuto essere molto utili alle nostre imprese manifatturiere.