Che colpa ne ha l’euro

Una moneta, di qualsiasi tipo, è un po’ come un metro, misura il valore di beni e servizi. Se le misure non tornano non è colpa del metro, ma forse di chi le ha prese o costruito.   A sentire certa propaganda elettorale, abolendo l’euro e tornando alle vecchie monete nazionali, per l’Italia la lira, avremmo risolto molti dei nostri problemi e il sole dello sviluppo tornerebbe a brillare. Purtroppo le cose non stanno così e sono un po’ più complicate.

Per cominciare facciamo un passo indietro, quando la lira era la nostra moneta e tutto si decideva (relativamente, perché il mercato dei capitali è da tempo aperto) in ambito nazionale.

L’inflazione, complice anche l’aumento dei prezzi del petrolio (nel 1973 e nel 1979 ci furono due shock petroliferi) da pagare in dollari, tra la metà degli anni settanta del secolo scorso e i primi anni ottanta è arrivata a superare il 20 per cento. Con l’inflazione salivano anche gli interessi dei mutui, spesso superiori alle due cifre.  Poi l’ondata inflazionistica si è attenuata, per lo stabilizzarsi della situazione ma anche grazie all’approssimarsi dell’entrata in vigore dell’euro, adottata da dodici dei quindici stati dell’Unione Europea dell’epoca prima, nel 1999, come unità di conto, poi come moneta vera e propria il primo marzo del 2002. Il cambio con la lira, dopo lunghe trattative, fu fissato a 1.936,27 per euro. Molte attività commerciali applicarono il cambio mille lire per euro, praticamente il doppio, con ricadute non certo positive per il potere d’acquisto dei salari. Il Ministro dell’economia di allora, Giulio Tremonti, non fece niente per rimediare.

Per aderire all’euro ai paesi viene chiesto di rispettare alcune condizioni, tra cui avere un deficit non superiore al 3 per cento e un rapporto debito pubblico/pil inferiore al 60 per cento.  Attualmente utilizzano l’euro 18 stati, in rappresentanza di 333 milioni di europei.

Non è andata meglio, quando c’era la lira, al debito pubblico italiano che è balzato dal 60 per cento del pil dei primi anni ottanta al 120 per cento del 1999,  cioè alla data dell’entrata in vigore dell’euro. Tutto fatto in lire, senza interferenze esterne, ma sempre debito da pagare e che oggi ci costa 80 miliardi di euro l’anno solo di interessi. Debito per un terzo circa posseduto, comprando Btp e simili, da investitori esteri, molto sensibili alla sostenibilità dei nostri conti pubblici.

Torniamo al presente. Si afferma che un cambio flessibile, in pratica una svalutazione, come accadrebbe se si tornasse alla lira, aiuterebbe l’economia, soprattutto le esportazioni. Nel breve è vero, perché i nostri prodotti all’estero costerebbero meno, ma durerebbe poco perché i prezzi aumenterebbero (tutte le importazioni diverrebbero più care) e perché nulla vieta ad altri paesi di replicare con svalutazioni competitive. Quindi, dopo un po’, si tornerebbe alla situazione di partenza.  La ragione sta che la competitività delle merci e dei servizi più che sul prezzo si gioca sull’innovazione, la creatività e la qualità dei prodotti.  La Germania esporta molto non perché i suoi prodotti costano poco, ma perché ritenuti buoni  e affidabili.  Il made in Italy  (moda, auto, gioielli, mobili, ecc.) è  appezzato all’estero per la qualità dei materiali, la professionalità degli artigiani e delle maestrane,  il design e la creatività, anche se costa il doppio dei prodotti locali (scadenti), come molti imprenditori che esportano sanno bene. Questo è il vero nodo da sciogliere. Non c’entra la moneta se il declino della produttività italiana è iniziata con la lira ed è proseguita con l’euro. Come non c’entra la moneta se non vendiamo computer, dopo averli inventati mezzo secolo  fa con Olivetti (risale infatti al 1959  il primo calcolatore italiano), lasciando campo libero ai produttori americani e cinesi.

Ci vuole una politica economica, industriale, per il turismo, la ricerca, l’innovazione, ecc., anche rinunciando a politiche di  austerità che, come dimostrato, non portano da nessuna parte e non fanno altro che peggiorare la vita delle persone.