Il lavoro è un grande tema, nazionale ma anche locale. Siamo partiti, all’inizio di quest’anno, con 140 mila occupati (2 mila meno dell’anno prima) e 15 mila disoccupati ufficiali, che tranquillamente salgono a 20 mila se consideriamo i lavoratori in mobilità (4.252 a fine 2012). In realtà i senza lavoro potrebbero salire ulteriormente se si considerassero anche gli scoraggiati, cioè quelle persone che il lavoro, sapendo di non trovarlo, hanno perfino smesso di cercarlo.
I dati provinciali del primo semestre dell’indagine Excelsior 2013, sulle richieste delle imprese private locali con almeno un dipendente sembravano incoraggianti perché davano un saldo, la differenza tra le entrate e le uscite dal lavoro, positivo per oltre quattro mila unità. Ma c’èra la componente stagionale legata al turismo ad alzare le entrate, quindi il saldo. A settembre molti contratti scadono e le uscite prenderanno il sopravvento.
Infatti, stimati, gli ingressi e le uscite, su base annuale il saldo diventa negativo per il quinto anno di seguito: 1.960 posti di lavoro in meno nel 2013, dopo il saldo negativo di 1.440 nel 2012.
Non si dica nemmeno che le aziende non assumono perché mancano i profili adatti, dato che solo il 9 per cento delle assunzioni non stagionali previste, che sono un terzo del totale, sono risultate di difficile reperimento, contro l’11 per cento regionale.
I saldi occupazionali nazionali (- 250 mila) e dell’Emilia Romagna (- 19 mila) non sono migliori, ma questo non modifica la situazione riminese.
Anzi c’è un aggravante: delle poche assunzioni previste solo a tre su cento è richiesta la laurea, l’anno scorso erano 8 su cento, contro il 10,7 dell’Emilia Romagna e l’11,4 per cento dell’Italia.
Un paradosso: mentre tutti dicono che sarà l’economia della conoscenza a tracciare il futuro, Rimini ne fa a meno. Come fa a meno, tra le competenze, delle abilità creative e di ideazione che in pochi pretendono. Rimini sta cioè rinunciando al suo futuro. Non è un buon segnale.