Non è un paese per imprenditori

Il Presidente della Provincia di Rimini è intervenuto, prima delle ultime festività, dichiarando che è una follia per un’azienda che vuole allargarsi (quindi c’è già)  debba richiedere 36 permessi. E’ vero. Come è una follia (vedere articolo sui comuni solari) che per un impianto fotovoltaico familiare a Rimini ci vogliano quasi venti documenti quando in Germania basta un clic di computer.

Si potrebbe aggiungere che è un decennio chela stessa Provincia, ma non è tutta colpa sua,  promuove protocolli dove la semplificazione burocratica compare sempre al primo posto, ma poi come si vede i risultati scarseggiano. Se adesso si comincia a fare effettivamente qualcosa non può che essere accolto con favore.

Ricordiamo, ma solo per citare un caso,  un’impresa di Camerano, area industriale dietro Santarcangelo che produce macchine agricole, che nel  2001 hapresentato una istanza di ampliamento e all’inizio dell’anno scorso era ancora in attesa di risposta. Oggi occupa una quindicina di dipendenti, ma se avesse più spazio potrebbe arrivare ad un centinaio. In tempo di  crisi occupazionale una risposta più rapida dovrebbe costituire il minimo.

Ma quello degli ostacoli che impediscono alle imprese di muoversi con più agilità,  per potersi concentrare meglio sulle attività proprie è un male italiano che mostra qualche timido segnale di miglioramento, ma il cammino da percorrere è ancora lungo. Sarebbe allora utile che i candidati alle prossime elezioni, invece di perdersi in discussioni aeree facessero proposte convincenti sui tanti impedimenti che limitano la ripresa dell’economia locale come nazionale.

L’ultimo rapporto della Banca Mondiale sulla facilità di fare impresa (Doing Business 2013), che ci classifica al 73mo posto in una lista di 185 Paesi, ma l’anno scorso eravamo 14 posizioni indietro,  con il primo saldamente in mano a  Singapore, può fornire spunti utili per tutti su dove intervenire.

Cominciano dalle pratiche e dai costi richiesti per avviare una attività. In Italia il numero di procedure (6) e i giorni richiesti (6), sono meno che in  Germania e uguale agli USA, che nella graduatoria generale è al quarto posto, ma la differenza è che costano moltissimo di più.

Un permesso per costruire un capannone richiede in Italia, quasi a parità di procedure (11) con i paesi concorrenti, 234 giorni, che sono  più del doppio della Germania e nove volte quelli di Singapore, con costi proporzionalmente molto superiori.

Per allacciare una linea elettrica da noi ci vogliono 155 giorni, ma in Germania ne bastano 17, con una spesa sei volte inferiore.  Poi c’è pure l’energia che è cara, ma qui costa di più anche arrivare ad ottenerla. Forse una maggiore concorrenza tra i fornitori, eliminando posizioni monopolistiche,  aiuterebbe. Un piccolo esempio: in Germania una famiglia che ha installato un impianto fotovoltaico può vendere la sua energia al vicino, se il prezzo per lui è conveniente. Al contrario, in Italia, esiste un unico acquirente e venditore, e nessuno può competere. Ma così a rimetterci, con tariffe più care,  sono le famiglie e le imprese.

Sulle esportazioni, che in un momento di forte crisi del mercato interno sono l’unica salvezza per le imprese attrezzate, vale anche per Rimini, chiediamo lo stesso numero di documenti (4) degli altri, ma poi  impieghiamo 19 giorni per far partire la merce, più del doppio del tempo necessario in  Germana e il triplo degli Stati Uniti. E la merce che sta ferma rappresenta un costo.

Ma il disastro più completo, infatti scendiamo alla 160ma posizione, praticamente in fondo alla classifica, arriva con i tempi richiesti dalla giustizia per dirimere vertenze commerciali: in Italia ci vogliono 1.270 giorni, che sono più di tre anni, per arrivare ad una sentenza, quando in Germania sono richiesti 394 giorni  e a Singapore si risolve tutto con 150 giorni. Su questo versante addirittura c’è stato, in Italia, un peggioramento rispetto ad un anno fa. Ovviamente i costi aumentano di conseguenza.

Paragrafo tasse: 269 ore sono necessarie in Italia per adempiere a tutti i pagamenti, in concreto 34 giorni lavorativi, contro le 207 ore della Germania,  le 110 della Gran Bretagna e le 82 ore di Singapore.  Facendo la somma di tutte le tasse, compreso i contributi sociali, ecc., una impresa  versa al fisco il 68 per cento dei ricavi in Italia, poco meno in Francia, il 47-48 per cento in Germania e gli USA, il  35 per cento in Gran Bretagna e solo il 28 per cento nella solita Singapore.

E sul lavoro di cui tanto si discute, che secondo alcuni sarebbe l’ostacolo principale, da cui richieste continue di flessibilità, che poi si traduce tutto in una grande precarietà ?   In Germania, che per rimanere in Europa prendiamo come riferimento, un contratto a tempo determinato può durare al massimo 24 mesi, in Italia 44 mesi; il salario mensile minimo di un apprendista  è di 865 euro, da noi 1.374 euro, il 59 per cento in più. Col risultato che il costo di un apprendista si porta via in Italia il 40 per cento del valore aggiunto per lavoratore, mentre in Germania si ferma al  20 per cento. Siamo invece più vicini sulle ferie pagate: 20 giorni in Italia, 24 giorni in Germania.

Competere, come si vede, vuol dire mettere mano ad un complesso di situazioni, perché una sola, senza coordinamento con tutto il reso, non basta.  Questo vale a livello nazionale, ma anche locale.