Gli artigiani di seconda generazione

di Stefano Rossini
Il presidente americano John Fitzgerald Kennedy amava ripetere, nei suoi discorsi, che la parola cinese per crisi, wēijī, è composta da due significati, il primo, wei, è quello del pericolo, il secondo, ji, quello dell’opportunità. Nonostante il fascino e il potere retorico dell’affermazione, la traduzione non è esatta, e l’immagine dell’opportunità non è presente nel significato cinese di crisi.
Eppure, nonostante la falsa etimologia, c’è del vero in questa interpretazione. Se non nel significato cinese del termine, in quello generale del concetto. I momenti di crisi sono dei momenti di grande opportunità. Oggi è difficile vederla così, alla fine di un quinquennio di grande sofferenza economica, con un numero di aziende che chiudono i battenti in continuo aumento, così come il numero dei disoccupati, soprattutto nelle fasce d’età peggiori, i più giovani, e gli over 50.
Dov’è allora quest’opportunità? Secondo Mauro Gardenghi, segretario di Confartigianato Rimini, un risvolto positivo la crisi l’ha avuto, anche se è necessario puntualizzare il grave momento di difficoltà.
“Per le nostre imprese piccole e medie – dichiara Gardenghi – questo è in assoluto il periodo peggiore. Dopo tre anni di crisi che ha prostrato le aziende, non si vede ancora l’uscita dal tunnel. Secondo le nostre stime, molte attività che hanno resistito pur tra mille difficoltà fino ad oggi, chiuderanno a breve”.
Qual è il principale problema?
“Il problema è che tutti soffrono di liquidità. Fino a che le banche sono riuscite ad attivare linee di credito la situazione è rimasta recuperabile, ma ora che gli istituti di credito hanno chiuso i cordoni da un giorno all’altro, per molti è impossibile andare avanti. C’è chi ha già ipotecato anche la casa. Bisogna tra l’altro considerare che, a differenza delle grandi industrie, le piccole imprese hanno un rapporto molto più peculiare tra datori di lavoro e operai. I dipendenti sono pochi e per questo ben conosciuti e apprezzati. Spesso sono amici e c’è un rapporto molto stretto, per questo si cerca di fare il possibile per non licenziarli. Per chiudere il quadro, l’immagine che secondo me meglio rappresenta questa situazione è quella del nuotatore che ha percorso la maggior parte del tragitto ed è arrivato quasi alla riva opposta ma è stremato, e le correnti sono ancora forti. Basta poco per essere trascinati via”.
Il panorama non è particolarmente consolatorio. Qual è, allora, l’opportunità?
“In tutta questa situazione l’unica cosa positiva è che molti figli di artigiani, spesso laureati, persone che hanno cercato altre strade, tornano verso l’azienda di famiglia e si mettono a lavorare nell’attività in cui sono cresciuti. Sono artigiani di seconda generazione, persone che, a differenza dei loro padri, hanno avuto l’opportunità di studiare, di vedere il mondo, ma, per scelta consapevole o per necessità ad un certo punto hanno deciso di tornare a lavorare in famiglia.
“Devo dire che chi l’ha fatto si è trovato molto bene. Sono ragazzi molto motivati, che hanno contribuito a salvare l’azienda di famiglia”.
Una conferma che trovare lavoro dopo la laurea è difficile?
“Molti ragazzi, spesso spinti dall’idea che l’artigianato fosse un lavoro poco dignitoso si sono buttati sull’università in cerca di qualcosa di diverso, ma poi hanno scoperto che non valgono le premesse e le promesse dell’università. Ad esempio chi non ha fatto l’università ma una scuola professionale e poi il mestiere scelto, ora ha un lavoro ben pagato e spesso la sua azienda. Ma al di là degli studi, il vero nodo della questione è il valore dell’artigianato”.
Cioè?
“E’ una tendenza che risale agli anni ’70 e ’80. E’ maturata l’idea che il lavoro artigianale fosse un impiego di serie B, qualcosa senza prestigio sociale, quasi qualcosa di cui vergognarsi. E’ colpa anche della nostra generazione. L’idea che il proprio figlio potesse fare il dottore aveva tutto un altro sapore, invece che saperlo artigiano”.
Eppure l’artigianato da sempre esercita una potente presa sull’immaginario collettivo. La pubblicità ne è un esempio lampante, e proprio l’industria alimentare ne fa largo uso. La maggior parte dei prodotti realizzati nella grande industria viene reclamizzata con immagini e filmati che rappresentano piccole botteghe nelle quali poche persone preparano, con ricette e tradizioni antiche, il prodotto in questione. Oggi l’immagine dell’artigiano sta cambiando?
“Sì. Non abbiamo più a che fare col lavoratore chiuso nella sua bottega. Gli artigiani di oggi, soprattutto con l’ausilio delle nuove generazioni, sono professionisti che si aggiornano, che sono interessati all’innovazione tecnologica, attenti al mercato. L’artigianato torna a riprendere il suo ruolo. A differenza della grande industria fornisce un prodotto unico, lavorato a mano, personalizzato. Non è un minus, rispetto all’industria, ma un alter”.
STORIE
Stampe di famiglia
Lara Marchi, dell’antica Stamperia Marchi di Santarcangelo, ora lavora nella ditta di famiglia.

“In realtà all’inizio la mia è stata una scelta di necessità. Avevo preso un’altra strada, fatto degli studi universitari, ma poi non si sono risolti in nulla. Dall’altra parte, questo lavoro lo sapevo già fare. In questa azienda mio fratello ed io abbiamo passato l’infanzia. Lui ha scelto questo lavoro già alle superiori, io un po’ dopo. Ora ci siamo divisi i compiti, io sono in negozio e mio fratello in stamperia”.
In che modo il vostro arrivo ha portato delle novità nel lavoro?
“I nostri genitori ora sono in pensione. E’ anche grazie a noi che ora questa attività esiste ancora. Quando siamo subentrati abbiamo anche innovato i prodotti. Oltre alle stampe artigianali facciamo delle tele dipinte col pennello, molto colorate e dato maggior sprone a tutta l’attività. Nonostante il momento non sia dei migliori, pensiamo di aver fatto un buon lavoro”.
Il pane ieri e oggi
Davide Cupioli, dell’omonimo forno nel centro storico di Rimini.
“Ho passato le estati in negozio a lavorare. Lo facevo a tempo perso, per guadagnare qualcosa durante gli studi. Poi, finita ragioneria, ho deciso di non proseguire gli studi ma di entrare nell’attività di famiglia. Il lavoro mi piaceva e cominciavo ad appassionarmi”.
Hai cominciato giovane, quindi. Come ti trovi?
“Sono contento. Sento che questo è il mio lavoro, anche se il contesto è profondamente cambiato e oggi ci sono molte difficoltà in più. Molti panifici chiudono. Il confronto con la grande distribuzione è impari e il contraccolpo di questa situazione si fa sentire. Quando ho cominciato avevamo più di 10 dipendenti. Oggi ce ne sono 7. E anche se noi ci siamo salvati, puntando molto sulla qualità, sulle novità e sul rapporto col cliente, i problemi rimangono”.
Quali novità?
“Soprattutto nelle forme, nei tipi di pane e nei prodotti da consumo immediato: pizze e salato. In questo aspetto devo dire che sono molto attento e ho portato parecchi cambiamenti. Rimane però il fatto che il mestiere è quello che mi ha dato mio padre, e si lavoro sempre in modo tradizionale: nessuna cella di conservazione né altro. Si impasta la notte, si lievita e poi si cuoce il pane”.
Il sogno su misura
Pochi dubbi e molta concretezza per Carolina Zampogno, dell’Atelier Luciana Torri Abiti da sposa.
“O volere, o volere. Questo è il mio lavoro. Se si ha un briciolo di passione per il lavoro di famiglia non si getta tutto alle ortiche. Io mi sono ritrovata qui quando ancora ero a scuola. E’ difficile dire se sia un lavoro che ho voluto, una scelta o una necessità. E’ stata più una continuità. Da ragazza ero qui che aiutavo, e poi mi sono ritrovata qui a lavorare”.
Un rapporto buono con l’artigianato, insomma…
“A me è sempre piaciuto l’artigianato, l’idea di creare qualcosa. Il problema è che negli anni l’artigianato è stato distrutto. Per quanto io faccia questo lavoro, e pensi di farlo bene, non mi sento all’altezza dei miei genitori e ho la sensazione che quando la vecchia generazione se ne andrà di tutta la storia del nostro artigianato rimarrà ben poco. Il nostro è un lavoro lungo che richiede passione e tempo. C’è poco apprendistato. E non sempre soddisfazione. Spesso il cliente finale vuole tutto subito e pagando poco”.
L’innovazione del prodotto unico
La storia di Mirko Leurini e dei suo fratelli Marco e Morris, tutti impiegati nell’azienda di famiglia, è l’esempio di come le nuove generazioni possano ridare vitalità ad un mestiere che sembrava segnato.
“Noi ci occupiamo di lavorazione dei metalli. Una volta, ai tempi di mio padre, questo era un laboratorio di ferro battuto. Noi abbiamo modificato l’assetto aziendale e ora facciamo arredamenti e lavorazione dei metalli. Abbiamo più progettazione interna, siamo attenti alle nuove tecnologie e abbiamo cambiato molti metodi di lavorazione. Lavoriamo con macchine a controllo numerico per ottenere manufatti molto più precisi. Non si tratta di competere con la grande industria, ma di offrire un prodotto calibrato sulle esigenze del compratore. Un prodotto unico, magari un po’ di nicchia, ma diverso da quello industriale. Non sarebbe stato possibile, oggi, rimanere in attività con lo stesso lavoro che faceva mio padre. E’ necessario crescere tecnologicamente”.
Come siete entrati in azienda?
“La bottega è sempre stata sotto casa. Ci siamo ritrovati qui. E’ stato naturale. La curiosità che si ha da ragazzi è diventata la passione da adulti. E per fortuna a me questo lavoro è sempre piaciuto”.