La Buzzi-Unicem è stata anche una scuola di responsabilità

Mentre a Santarcangelo si discute sul destino della ex Buzzi-Unicem, fabbrica di cemento chiusa definitivamente nel dicembre 2009 quando ancora dava lavoro ad un centinaio di persone, tra diretti ed esterni, con Franco Antonini, attuale Sindaco di Torriana  che ci ha lavorato per ventotto anni, ripercorriamo un po’ la storia dell’ultimo periodo.   Perché, magari non tutti lo sanno, la cementeria “Marchino”, dal nome dei primi proprietari, poi diventata Unicem, del gruppo Fiat, infine passata alla Buzzi, diventando così Buzzi-Unicem, era un’azienda con più di un secolo di vita e probabilmente la più antica fabbrica della provincia di Rimini. Tanto che per tutti era “la fabbrica”, quasi a rimarcarne il ruolo. La “fabbrica”, nonostante non fosse il luogo ideale di lavoro, pagava abbastanza bene.  Tra turni e indennità varie si poteva portare a casa  tra 1.700 e 2.000 euro, e tutti i commercianti della zona non si facevano problemi a fare credito, perché a fine mese il saldo dei conti era garantito. Per l’economia della zona, a cominciare dal quartiere di San Michele che è cresciuto intorno,  la “fabbrica” era una risorsa e una fonte di reddito importante. Infatti erano  pochi i lavoratori che venivano da fuori, al massimo da Rimini.

Il rapporto tra residenti e fabbrica non era però idilliaco e spesso l’accusavano, quando si trovavano i tetti e i balconi pieni di polvere, di aprire nottetempo i filtri dei camini ma, ci conferma Antonini “non era vero, come hanno confermato anche i controlli di Arpa (l’Agenzia regionale per l’ambiente)”.

Franco Antonini, dopo aver superato la prova attitudinale, che adesso non si fa più,  consistente nella lavorazione di un pezzo al tornio, entra a lavorare al cementificio nei primi anni ottanta con la qualifica di operatore alle macchine utensili, in specifico i torni a controllo numerico, anche se in azienda c’erano solo quelli normali. Poi con l’uscita di alcuni dipendenti anziani si liberano dei posti, così  prima diventa elettricista addetto alla manutenzione, infine capo turno al reparto vendite.

Il cementificio lavorava a ciclo continuo e stava fermo solo un mese l’anno per la manutenzione, perché per riavviarlo e portarlo a regime prendeva dalle dieci alle dodici ore.  Certo, spiega Antonini “ le condizioni di lavoro erano difficili e  la polvere non mancava. C’erano le mascherine, ma portarle, col caldo, non era proprio comodo. Qualche lavoratore è morto di silicosi (una malattia che coglie le vie respiratorie e colpisce soprattutto i minatori NdR), ma non è mai stato possibile stabilire un nesso causale tra l’ambiente di lavoro e l’insorgere della malattia. In ogni casola Rappresentanza SindacaleUnitaria(RSU) ha fatto molte battaglie per migliorare le condizioni di lavoro, ottenendo anche importanti risultati.

Ma il sindacato, in azienda, era anche qualcosa di più: era una scuola di solidarietà e di responsabilità. Iniziative individuali non erano ben accolte, perché i problemi dovevano essere discussi e le soluzioni trovate insieme. Quando c’erano i turni da fare, magari in occasione di festività particolarmente sentite (come può essere il Natale), non era ammesso fare i furbi inventandosi qualche scusa. Perché voleva dire danneggiare gli altri, che avevano rispettato i propri impegni. Questo sentimento di responsabilità verso i colleghi, ed anche nei confronti dell’azienda, era considerato un valore e non erano ammesse deroghe. Purtroppo qualcosa di questo clima si è perso nel tempo, mano a mano che il lavoro è cominciato ad essere percepito solo come mezzo per ricevere un salario”.

Franco Antonini non era favorevole alla chiusura della fabbrica, perché pensa che avrebbe avuto ancora un futuro. Ricorda che quando fu presa la decisione vendeva ancora, per un mercato che si estendeva da Bologna al pesarese, 15 mila quintali di cemento al giorno.  Quello stesso cemento adesso arriva, via nave, nel porto di Ravenna, prodotto a Barletta o Augusta, quando non in Albania, dove la Buzzi possiede un altro dei suoi cementifici.  Però, dice  lui “con questo sistema sta perdendo mercato, perché non è agevole mantenere il cemento in buono stato con tutti questi passaggi”.

Per gli ex dipendenti a fine dicembre è scaduta la cassa integrazione (700-800 euro al mese)  e sono entrati in mobilità, che vuol dire l’ultimo girone  prima del definitivo licenziamento. Pochi hanno un nuovo lavoro e per molti cinquantenni, ancora giovani per la pensione, non sarà facile trovare un’altra occupazione.  E  non avere più niente da fare tutto il giorno non aiuta le persone a stare bene, ci tiene a sottolineare Antonini, che frequenta spesso, magari incontrandoli al bar, i suoi ex colleghi.

TESTIMONIANZA

A pochi metri dalla “fabbrica”

diCinzia Casadei

Sono nata a poche decine di metri dalla portineria della fabbrica, là dentro ci andavo a fare i compiti perché la mia maestra era la moglie del direttore e abitava là.  La mia famiglia d’origine e anche la mia famiglia acquisita hanno vissuto direttamente o indirettamente dell’attività della fabbrica.

Siamo una comunità che ha ricevuto molto la fabbrica, non a caso, è un termine che  si usa per indicare sia lo stabilimento che la frazione; una comunità che si è insediata ed è cresciuta intorno a quell’attività produttiva; una comunità che ha avuto nei confronti della fabbrica, quell’atteggiamento di gratitudine un po’ antico per il quale non si morde la mano che ti dà da mangiare.

Abbiamo però anche dato molto,  abbiamo visto famigliari, vicini, amici  ammalarsi di malattie la cui causa è strettamente  correlata a certe condizioni di vita e a certi tipi di esposizione.

Dopo 40 anni che abitavo lì io me ne sono andata a cercare aria più pulita da far respirare ai miei figli entrambi asmatici  e ha funzionato, sono guariti.

Perciò quando sento dire che quella zona ha una vocazione produttiva mi vengono i brividi, capisco che ci sono produzioni e produzioni,  che c’è anche un diverso modo di intendere la produzione, come ci ha spiegato il relatore di questa sera (si riferisce all’ultima serata del Forum aperto a Santarcangelo NdR) aprendo scenari affascinanti,  ma dopo 100 anni pensiamo di aver fatto ampiamente la nostra parte, non ci siamo poi affezionati così tanto, e crediamo di meritare, a questo punto, qualcosa di meglio.

Faccio quindi  il mio appello perché si raccolga con serietà lo stimolo lanciato questa sera di fare di una criticità una opportunità e auguro a noi tutti di essere all’altezza della sfida.