Imprenditori in difesa dell’art.18

Periodicamente – e particolarmente nei periodi di forte crisi economica, come quello che stiamo vivendo ormai da qualche anno – l’art. 18 torna ad aggirarsi come uno spettro nel dibattito politico italiano. Il motivo è noto: secondo una parte di Confindustria, supportata da un agguerrito nugolo di economisti e opinion maker, l’art. 18 va abolito – o quantomeno fortemente ridimensionato – in modo da rilanciare la produttività delle aziende e il “sistema Italia” in generale. A supporto di questa tesi, come è noto, si è espresso lo stesso governo, convinto che solo mettendo mano agli “arcaici privilegi” che lo Statuto dei lavoratori garantisce ai dipendenti a tempo indeterminato sarà possibile dare vita a quelle riforme strutturali che dovrebbero rimodellare il mercato del lavoro e assicurare l’uscita dalla crisi dell’Italia. A beneficiarne sarebbero in primo luogo i giovani precari, ai quali le aziende dischiuderebbero finalmente le porte una volta che le leggi dello Stato consentano loro la possibilità di poterli licenziare anche senza giusta causa. L’abolizione dell’art. 18, infine, ridimensionerebbe in maniera decisiva il ruolo dei sindacati – in primis quelli irrimediabilmente “novecenteschi” come la FIOM -, che si ritroverebbero privati della loro maggiore “arma di ricatto” nei confronti delle imprese, e calmiererebbe anche l’azione della magistratura del lavoro, sempre pronta ad agitare sul capo dei datori di lavoro la spada di Damocle del reintegro.
Come imprenditori vorremmo dire a riguardo alcune semplici cose, che ci auguriamo possano servire ad aprire un dibattito concreto, non ideologico, sul tema delle tutele del lavoro e della cultura di impresa.
La prima è che non crediamo che l’art. 18 abbia alcuna influenza significativa sul rilancio produttivo del paese. Esso è applicato solo nelle aziende con più di 15 dipendenti e sappiamo bene che la nostra economia è fondata sulla piccola e media impresa, che insieme rappresentano circa il 95% dell’apparato produttivo. Né crediamo che le imprese siano costrette a restare “piccole” proprio per scongiurare gli effetti dell’art.18: studi autorevoli, come quelli della Banca d’Italia, hanno dimostrato che la crescita delle imprese non è scoraggiata dall’art. 18 ma è condizionata dagli assetti proprietari familiari, dalla forte pressione fiscale, dalle difficoltà di accesso al credito, dalla mancanza di incentivi statali per i settori innovativi e potenzialmente trainanti.
Non si capisce, dunque, come l’art. 18 – che, oltre a riguardare una piccola fetta di lavoratori, limita i licenziamenti individuali e impone il reintegro solo in caso di licenziamento senza giusta causa – possa condizionare negativamente la produzione. L’immagine di un’economia condannata al nanismo dal giogo dell’art. 18, così come quella di un paese dove è impossibile licenziare, sono francamente caricaturali e, cifre alla mano, assolutamente non veritiere: gli indici OCSE sulla cosiddetta “rigidità in uscita”, infatti, collocano l’Italia ben al di sotto della media UE (1,77) e ci raccontano che la maggiore potenza economica europea, la Germania, vanta un indice quasi doppio di quello italiano (3.00).
Ci viene a questo punto il sospetto che tutto il clamore suscitato ad arte sull’art. 18 serva a nascondere, soprattutto da parte delle istituzioni e del mondo della politica, i veri mali che affliggono il mondo delle imprese, in particolare l’imprenditoria giovanile e la PMI. Un rapporto del Centro studi di Unioncamere, già due anni fa, segnalava che il 41% delle piccole imprese e il 46% di quelle medie è impegnato nella promozione di prodotti innovativi, per i quali sono necessari ovviamente nuovi investimenti per reperire i quali le piccole e medie imprese, sottocapitalizzate per natura, sono costrette a ricorrere al credito bancario. Ebbene, già nel 2009 quasi il 50% delle piccole imprese incontrava forti difficoltà di accesso al credito, percentuale che sfiorava il 60% al Sud. La situazione si è ulteriormente aggravata nel recente periodo: a dicembre 2011 si è registrato uno storico e drammatico “credit crunch”, evidenziato dallo stesso governatore della Banca d’Italia, il quale ha reso noto che i prestiti alle imprese si sono contratti nel solo mese di dicembre di ben 20 miliardi di euro. Sempre più problematico anche il rapporto delle imprese con la Pubblica Amministrazione: il 56% delle aziende che forniscono la PA hanno registrato un aumento dei casi di ritardo nei pagamenti. Ma il vero tasto dolente è il mancato supporto alle produzioni strategiche, innovative ed ecologicamente sostenibili. Un caso esemplare, in tal senso, è quello del comparto del fotovoltaico. L’Italia, nonostante il grande ritardo accumulato in questi anni, è oggi (dati Epia) il primo paese in Europa quanto a potenza installata da fotovoltaico (14 Gw), superando la stessa Germania. Sempre secondo l’Epia, il nostro paese, già nei prossimi anni, potrebbe essere il primo a raggiungere la “grid parity” (pareggio del costo del kWh fotovoltaico con quello generato dalle fonti tradizionali). A tutto ciò corrisponde un ritorno occupazionale che non ha riscontri in altri comparti produttivi: circa 100.000 addetti, che si stima possano divenire 225.000 entro i prossimi 9 anni (senza considerare quelli dell’indotto), che produrranno 110 miliardi di euro in termini di ricchezza generale e un introito di circa 50 miliardi nelle casse dell’erario nei prossimi 30 anni.
Nonostante ciò, quello che è il solo settore in costante espansione in questi tempi di crisi non è in alcun modo assistito in sede legislativa. La stabilità normativa, infatti, a partire dall’erogazione di incentivi statali e dall’omogeneizzazione delle procedure autorizzative, rappresenta la condizione essenziale per proseguire lungo il cammino intrapreso. Invece, fra l’agosto del 2010 e l’agosto del 2011, ci sono stati ben 6 interventi normativi che hanno continuamente modificato le regole del sistema – con al centro il tristemente noto Decreto Romani – e che hanno scoraggiato gli investimenti e la fiducia delle banche.
Quello delle energie rinnovabili è solo l’esempio più eclatante delle minacce che gravano sul mondo delle piccole e medie imprese. Altro che art. 18! In merito al quale vogliamo, per concludere, chiarire il nostro pensiero: come imprenditori, non solo riteniamo che una sua eventuale abolizione non comporterebbe alcun beneficio per lo sviluppo economico del paese ma siamo convinti che il suo mantenimento rappresenti un insostituibile fattore di civiltà. Non abbiamo alcuna nostalgia per gli anni ’50 del secolo scorso, per un mercato del lavoro senza regole governato dall’arbitrio dei grandi gruppi industriali, liberi di licenziare e determinati a tenere lontana la Costituzione dai luoghi di lavoro. Crediamo che l’art. 18 tuteli la dignità dell’uomo, prima che del lavoratore, e che pertanto la sua abolizione o meno non possa essere materia di pertinenza delle relazioni industriali. Viceversa, una moderna cultura di impresa non può prescindere dal tema delle tutele del lavoro e dalla valorizzazione delle risorse umane, che per poter esprimere tutte le loro potenzialità devono essere liberate dal ricatto della precarietà.

Mauro Bulgarelli – MaranoSolar/S.M&S s.r.l.

Mario Pompeo Pivi – Gruppo Petroltecnica s.p.a. – Rimini