Verso una popolazione di senior

Verrebbe da dire che con tutti i problemi che abbiamo ci manca solo la demografia a complicare le cose. Purtroppo è un argomento difficile da evitare, perché il rapporto tra demografia e sviluppo è molto più stretto di quanto si pensa. Per rendersene conto basta pensare all’energia e alla vitalità di un giovane, confrontata con quella di una persona più matura.  E’ vero che nell’economia della conoscenza, dove conta più il lavoro intellettuale che lo sforzo fisico, anche la vita lavorativa utile si allunga, ma una differenza rimane.

Tanto che l’agenzia statunitense di rating  Moody’s (nota in Italia per le discusse pagelle che spesso emette sullo stato della nostra economia) ha pubblicato un rapporto sull’invecchiamento della popolazione mondiale nel quale si sancisce che l’età media si sta alzando in molti paesi del mondo a ritmi sempre più sostenuti, con conseguenze poco positive per l’economia nei prossimi anni. A oggi le nazioni “super-anziane”, come vengono definiti nel rapporto gli Stati con più del 20 per cento della popolazione sopra i 65 anni, sono Germania, Italia e Giappone. A questi tre paesi se ne aggiungeranno, entro il 2020,  altri 10.  E nel 2030 i paesi con un quinto della popolazione anziana saranno almeno 34.

La Grecia e la Finlandia saranno i primi ad aggiungersi, entro il 2015, alla lista dei più vecchi.  Altri otto paesi, compresi Svezia e Francia, entreranno a far parte del gruppo entro il 2020. Poi arriveranno il Canada, la Spagna e il Regno Unito entro il 2025 e infine cinque anni dopo toccherà agli Stati Uniti, alla Corea del Sud e a Singapore.  Il fenomeno non riguarda quindi esclusivamente paesi dell’Occidente, ma anche le economie più avanzate dell’Asia (attualmente l’età media è di 42 anni in Europa e 28 anni in Asia).

Il recente Global Age Watch Index 2014 (Indice globale sull’età della popolazione  2014) ha calcolato in circa 700 milioni, nel mondo, la popolazione con più di 60 anni, che diventerà  più di 2 miliardi nel 2050.  Nella classifica che misura le politiche di sostegno alla popolazione  senior (pensioni, accesso alla salute, opportunità di lavoro, ecc.) l’Italia si posiziona al 39° posto, su 96 paesi  (al primo e secondo posto ci sono Norvegia e Svezia).

L’invecchiamento della popolazione ha conseguenze sull’economia  dei paesi in cui il fenomeno è più marcato. Un maggior numero di persone anziane significa meno persone che lavorano e più persone cui pagare le pensioni, le cure sanitarie e l’assistenza di vario tipo. Secondo il citato rapporto,  i paesi “super-anziani” saranno svantaggiati per quanto riguarda la crescita economica, se non adotteranno misure adeguate per controbilanciare. Tra le soluzioni proposte, e da tempo dibattute, c’è quella di favorire l’immigrazione da paesi economicamente più svantaggiati nei quali l’età media è più bassa. Le nazioni che stanno invecchiando di più dovrebbero inoltre investire maggiori quantità di denaro nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie, utili per rendere più produttivi i lavoratori.

Nemmeno la provincia di Rimini, dove le persone che hanno superato  65 anni  sono prossimi al 22 per cento del totale e quelle ultra settantacinquenni sono l’11 per cento,  può dirsi esente da questa tendenza.  Con tutte le conseguenze sopra richiamate.   A cominciare dalla discesa, lenta ma continua, delle persone in età per lavorare, cioè che hanno tra 15 e 64 anni: rappresentavano il 70 per cento dell’intera popolazione nel lontano 1981, si sono ridotte a meno del 65 per cento nel 2013.

Risale alla metà degli anni ottanta del secolo scorso il sorpasso della popolazione senior sui più giovani, con meno di 14 anni, che dovrebbero sostituire, nel lavoro, quelli che vanno in pensione. Una forchetta che tra l’altro si va allagando.  Per dare un’idea del cambiamento in  atto basta ricordare che nel lontano 1971 c’erano più di due giovani per ogni anziano.   Quindi i conti non tornano, perché chi è in procinto di lasciare il lavoro supera, di numero, quanti dovrebbero entrare.

E’ vero che con la disoccupazione che ci ritroviamo questo, nel breve periodo, potrebbe non essere un fatto negativo. Ma non sarà così nel medio-lungo periodo,  quando continueranno a crescere pensioni e spesa sanitaria e qualcuno dovrà versare per pagarle.

La situazione demografica della provincia di Rimini sarebbe ancora peggiore se in  questi anni non ci fossero stati consistenti flussi migratori in entrata, a compensare  la bassa natalità locale.

Perché facendo il bilancio tra nati e morti, quello che si chiama saldo naturale, si scopre che dal 1990 ad oggi il segno meno è di 642. Vuol dire che, negli ultimi 23 anni, i nati vivi sono stati meno delle persone decedute.  Ma la situazione sarebbe ancora più in rosso senza l’apporto dei figli degli immigrati che nel frattempo si sono stabiliti nel territorio.

Infatti il saldo naturale è stato negativo per tutti gli anni novanta e comincia a cambiare segno solo quando si consolida il fenomeno migratorio, con immigrati giovani ed una propensione maggiore a fare figli.  Negli ultimi due anni nemmeno questo però è bastato.

Per essere chiari, senza gli immigrati residenti, che oggi sono poco più di 36 mila, la popolazione della provincia di Rimini non solo sarebbe più vecchia, ma retrocederebbe  a quella che era nei primi anni duemila. Con ancora meno persone in età da lavoro e relativamente più anziani da assistere.

Gli immigrati compensano il nostro calo demografico ma anche quello imprenditoriale, data la loro maggiore propensione, rispetto ai nativi, ad intraprendere e creare nuove imprese.

Però un vantaggio dall’invecchiamento della popolazione si potrebbe ricavare: i turisti con più di 65 anni, secondo uno studio della Commissione Europea, hanno speso, nel 2011, un terzo in più di cinque anni prima. Un mercato in crescita che una località turistica dovrebbe tenere d’occhio.