URBANISTICA E SVILUPPO LOCALE

Intervista all’arch. Daniele Fabbri, già Direttore del Dipartimento del Territorio del Comune di Rimini, andato di recente in pensione.

Nel tuo lungo percorso professionale hai attraversato l’urbanistica e gli uffici tecnici dei Comuni di Riccione, Misano Adriatico, Cattolica e Rimini. Come sintetizzeresti il contributo che le scelte urbanistiche hanno dato allo sviluppo di questi territori e cosa ci può riservare il futuro ?

E’ cambiata la fase storica. Tutto quello che in passato si intendeva per urbanistica, oggi è in gran parte superato. Se non si parte da qui è difficile dire se è stato utile o meno, e cosa si deve fare in avanti.

Cosa si intende per urbanistica storica? E’ quella che ha caratterizzato lo sviluppo, dal dopoguerra fino a 10 anni fa, delle nostre città. Parliamo della nostra zona, ma lo stesso è avvenuto in altre realtà  nazionali. Era un modo di leggere e pianificare le città attraverso le funzioni. Un Piano Regolatore, che rispondeva ad una legge urbanistica nazionale,  in genere prevedeva sette-otto zone omogenee.  Si puntava a programmare per zone omogenee (i centri storici con alcuni servizi, le zone urbane consolidate, quelle di espansione residenziale…dove, forse, si sono fatti più danni, le aree produttive, ecc.) tendenzialmente autonome e separate.

Questo ha fatto da sfondo, nel bene e nel male, al nostro sviluppo. Le aree artigianali, che creavano opportunità di fare impresa e produrre lavoro, si tendeva a farle in campagna dove il terreno costava meno. Ovviamente questo ha creato qualche problema, paesaggistico e di mobilità. Erano aree che non erano pensate per stare vicino ad una uscita autostradale, uno snodo ferroviario….ma rispondevano ad altri criteri. A volte, anche di speculazione immobiliare.

Aree che oggi, ad un decennio dall’ultima crisi, sono spesso semi abbandonate, molti capannoni sono vuoti, gli artigiani che vi abitavano se ne sono andati e così si è consumato del territorio senza ottenere gli effetti previsti.

Lo stesso è avvenuto con le zone di espansione residenziale, le cosiddette aree C. Aree, dove dentro ci sono rientrati i PEEP, l’edilizia sovvenzionata, convenzionata, ecc. e che sono state distribuite un po’ dappertutto, basta che ci fosse un vecchio ghetto e attorno si  costruivano nuove palazzine.  Il risultato è stato che da questa campagna urbanizzata ogni mattina si muove qualche centinaia di auto di persone che vanno a lavorare, intasando le strade che non sono state ampliate o adeguate Nuovi quartieri, a volte anonimi, magari costruiti bene, ma privi di una forte identità. Potrebbero stare in qualsiasi luogo.

Tutta questa fase è durata, nella costa, dagli anni sessanta al settanta, quando si sono costruiti gli alberghi, fino al duemila per tutto il resto, con i vari piani particolareggiati. Va considerato che all’epoca c’era anche una domanda di case a basso costo a cui i Comuni cercavano di dare una risposta, spesso con risultati positivi.

Nel frattempo, il Pubblico investiva per dotare la città di servizi: scuole, palestre, impianti sportivi, centri di quartiere, teatri, musei, biblioteche, ecc.

Questa è stata la pianificazione urbanistica, che spesso prevedeva una espansione a macchia di leopardo, diffusa sul territorio, protagonista fino all’arrivo della crisi, che ha colpito in modo particolare l’edilizia.  E’ una fase storica che, a mio avviso, si è chiusa, con le sue luci ed ombre.

Oggi siamo entrati nella fase due: della città intelligente, collegata, cablata… Perché non serve più, per mancanza di presupposti (popolazione stabile, attività economiche in assestamento, ecc.) continuare ad espandersi consumando nuovo territorio. Non ha più nessun senso.

Cosa bisogna fare adesso? Riqualificare l’abitato esistente. Ricucire le città, “rigenerare”come dice Renzo Piano. Questo è il futuro compito dell’urbanistica. Non serve costruire nuovi appartamenti, perché  c’è ne sono già tanti invenduti o da completare (basta andare in giro per vedere quanti scheletri incompleti ci sono). Non servono nemmeno nuove aree produttive visti i tanti capannoni vuoti.

Sul fronte privato andrebbe incentivato e favorito in ogni modo la demolizione e la ricostruzione dell’esistente.  Perché il grosso del nostro patrimonio edilizio è stato costruito quando le norme anti sismiche non esistevano e i criteri di efficienza energetica, che vuol dire consumare e spendere  meno,  erano al di la da venire. Oggi adeguare un vecchio edificio alle norme antisismiche o isolarlo per renderlo meno dispersivo è difficile e costosissimo. Senza, poi, nessuna garanzia del risultato. Questo vale tanto per l’edilizia privata, come per gli alberghi.

Insomma, ci vorrebbe un piano graduale di sostituzione dell’abitato privato. Ma siccome tutto questo costa ci vogliono incentivi: fiscali, ma anche cambiamenti in alcune regole urbanistiche  sulle distanze, la volumetria, ecc. Con regole procedurale rapide, in modo da fornire risposte in tempi veloci.   Qui, purtroppo, ci si scontra con regole statali, regionali e comunali, non sempre coerenti e di chiara interpretazione. Groviglio che non facilita certo il lavoro dei tecnici comunali.

Ultimo, non meno importante, va ripristinato  il controllo sulla qualità architettonica del costruito. Perché adesso non esistono norme efficaci, a parte quelli sugli edifici vincolati per incentivare la realizzazione di edifici di qualità, correttamente inseriti nel contesto. Ognuno fa quello che vuole, lo prende da qualsiasi catalogo architettonico perché si è persa una cultura comune del costruire legata alle peculiarità del territorio. Un maggiore controllo sulla qualità renderebbe la città più gradevole, ed anche meglio vendibile sul mercato turistico. Perché non basta fare la manutenzione e conservazione dei monumenti storici, se l’intorno poi è brutto. Sintetizzando, nel prossimo futuro vedo tre riqualificazioni: strutturale, energetica ed estetica. Lo deve fare il privato, senza risorse pubbliche. Ma va incentivato con i premi giusti.

I Comuni, per parte loro, anche perché non hanno più grandi risorse da spendere, dovrebbero invece occuparsi di riqualificare la rete dei servizi. Compreso la mobilità sostenibile incentrata sul trasporto pubblico, non solo sulle piste ciclabili, la rete del verde urbano, la riqualificazione degli spazi collettivi, ecc.

Questo è valido per ciascun comune. Ma è utile, è efficiente, che ciascuno lo faccia per conto proprio, in concorrenza e magari senza preoccuparsi di cosa fa il vicino ? In passato si era tentato l’esperienza del PIC (Piani Inter Comunali), oggi c’è qualche forma di coordinamento ?

Noi siamo la patria del municipalismo, dove anche il comune più piccolo vuole replicare quello che fa  il più grande. Creando, a volte, una sovrapposizione inutile e costosa di servizi. E’ una logica che va superata, anche perché le risorse sono sempre più scarse.

Ci vorrebbe un organismo di coordinamento da area vasta, dopo la confusione fatta con le Province, rimaste in mezzo al guado senza sapere bene cosa devono fare. Poi individuiamo le poche questioni di cui dovrebbe occuparsi, che sono: la mobilità, i servizi sovra comunali, come l’istruzione (non si può fare un Liceo in ogni comune e la manutenzione degli edifici va fatta) e le infrastrutture, ma anche la promozione turistica (non è pensabile che un piccolo comune dell’entroterra si possa promuovere da solo).

Quanta questa visione è condivisa dalle varie amministrazioni locali, ma anche dai tecnici comunali ?

Qualcuno può averlo compreso prima, qualcuno dopo, ma è un passaggio che prima o poi riguarderà tutti. Perché è cambiata la realtà.  E’ difficile che oggi una Amministrazione risponda positivamente a chi volesse, magari presentandosi con finanziamenti bancari approvati, costruire un nuovo quartiere.

Negli ultimi decenni, ne sono stato testimone diretto, la qualità del personale tecnico comunale è migliorata moltissimo. Ho gestito tanti collaboratori: quello che conta è avere piani di lavoro, momenti di verifica, dare degli obiettivi, chiederne il rispetto, controllare. Bisogna puntare sulla responsabilizzazione. Poi c’è una ultima cosa: io ho sempre predicato, un po’ provocatoriamente, la ricerca della felicità sul lavoro. Dicevo ai collaboratori: voi state qui un sacco di ore, dovete stare bene, cercate di fare cose che vi piacciono, vi gratificano, vi realizzano. Proponetevi, chiedete responsabilità, non puntate al minimo sindacale…

Non c’è persona o impresa, che abbia a che fare con gli uffici tecnici comunali e non lamenti l’eccesso di burocrazia e i tempi lunghi delle risposte. Quanto dipende dalla sovrapposizione di norme e regolamenti e quanto dalla cattiva organizzazione degli stessi ?

Qui giocano più fattori. Tutti sono preoccupati dalla correttezza delle procedure, che non ci sia corruzione, ecc. Ma se tu applichi tutte le norme che ci sono puoi non arrivare mai al risultato. Se non si cerca di velocizzare le procedure, di utilizzare il buon senso e, ove possibile, le deroghe, per realizzare opere pubbliche, o interventi privati, anche non importanti, ci vogliono anni.  Tutte le leggi cominciano con “lo snellimento e semplificazione delle procedure”, poi vai a leggere e scopri che è una corsa ad ostacoli, prima su carta, oggi digitale, tutta basata su piattaforme elettroniche, che taglia fuori un sacco di gente, perché si da per scontato che tutti sappiano districarsi con questi strumenti, ma non è così.

Quindi si costruiscono percorsi complicatissimi, poi siccome una risposta in tempi ragionevoli bisogna darla, allora scatta il silenzio-assenso. Che è come dire: la norma è complicata e schizofrenica, applicarla è quasi impossibile, dopo 45 giorni scatta il silenzio-assenso e l’opera può cominciare.  Modalità che non consente, di fatto, nessun controllo della parte pubblica.

Quindi, per rispondere alla domanda: il problema è per metà normativo, per l’altra metà riguarda le modalità di lavoro del personale  che deve gestire le pratiche. Più concentrato, anche per paura di sbagliare, sugli aspetti burocratici  e meno sulla sostanza di quello che gli viene messo di fronte. Magari assumendosi  la responsabilità di snellire dove possibile. Responsabilità che andrebbe condivisa dagli Uffici e dall’Amministrazione e non ricadere sulle spalle di pochi dirigenti, come capita ora. Spesso senza alcuna copertura, nemmeno dal punto di vista della difesa giudiziaria, da parte dell’Amministrazione.  Così è facile che scatti il: chi me lo fa fare ? E si sceglie il profilo basso, senza la passione e l’entusiasmo che servono per fare funzionare correttamente la Pubblica Amministrazione.