Un riccionese in America

di Stefano Rossini  (da Il Ponte)

San Francisco è la ragione principale per cui ho lasciato il mio precedente lavoro e sono venuto in America. È una città stupenda. È piccola, meno di un milione di abitanti, ed è costruita su una zona collinare chiusa dall’Oceano su un lato e dalla baia su altri due. Dai punti più alti si può vedere il Golden Gate. Il panorama è fantastico.
L’amore per la sua patria di adozione si percepisce in ogni sua parola. Marco Salvi, classe 1976, riccionese, programmatore e ricercatore di professione, non è partito dall’Italia in giovane età. Ha studiato a Bologna, lavorato a Milano, e solo a 30 anni ha deciso di volare.

“Mi sono laureato in Fisica nel 2001, ma la mia passione sono sempre stati i computer, i videogiochi e la grafica. Per cui ho cominciato a spedire curricula in giro. Dopo alcuni colloqui sono stato assunto e ho iniziato come junior programmer in un’azienda di videogiochi di Milano. Un bel lavoro, ci sono rimasto per tre anni. Penso che sia stata un’esperienza che mi ha permesso di crescere professionalmente, ma come spesso accade, mi sono scontrato con episodi di nepotismo e mancanza di meritocrazia, per cui ho deciso di provare a cercare qualcosa all’estero”.

Marco entra in contatto con un programmatore di Cambridge che gli chiede di fare un colloquio per la sua compagnia. Nel settembre del 2005 viene assunto per un periodo di prova di 3 mesi che poi si trasforma in un contratto a tempo indeterminato.
“È stata una bellissima esperienza, ma all’inizio fu molto dura. Lavoravo insieme ad altri due ragazzi su un progetto per un gioco per la Playstation 3, che all’epoca non era ancora uscita, quindi lavoravamo con schemi e prototipi che non potevano essere divulgati. In pratica io svolgevo le mie cose in una stanza separata dal resto dell’ufficio, in un clima di segretezza. Il fatto è che ero appena arrivato, parlavo poco la lingua e non conoscevo nessuno, e questa separazione forzata è stata davvero dura”.

Poi però le cose migliorano. Quel progetto si chiude e Marco lavora col resto del team. Dopo alcuni mesi conosce Julie, ragazza inglese che diventerà sua moglie. E dopo alcuni anni gli offrono di lavorare a San Francisco per la Lucas Arts, la software house legata al brand di George Lucas.
“Ero già stato a San Francisco anni prima per un convegno, e la città mi aveva conquistato. Quando ho ricevuto l’offerta, oltre al prestigio del lavoro, ha pesato molto anche il luogo”.
Dopo un primo colloquio telefonico, Marco viene chiamato in America per un incontro di persona. La Lucas si accolla le spese di viaggio e di trasloco. La nuovo vita entusiasma Marco, il lavoro un po’ meno.
“Così mi sono rimesso a guardarmi attorno. Siamo a pochi chilometri dalla Silicon Valley, le occasioni, nel mondo dell’informatica non mancano”.

E infatti Marco entra in contatto con la Intel, l’azienda che produce i microprocessori dei Pc.
“Il mio lavoro consiste nell’inventare nuovi algoritmi di computer grafica in real time. Alcuni di questi vengono utilizzati per sviluppare tecnologie che saranno sul mercato tra 5-7 anni. Quando sono venuto alla Intel questo non era il mio ruolo, dovevo lavorare ad un prodotto che non ha mai visto la luce del sole. Qui è una cosa che non spaventa, a differenza dell’Italia”.

C’è un problema, però. Marco è sbarcato in America con un visto per lavorare con la Lucas Arts e cambiare azienda non è possibile.
“Ho dovuto chiedere un visto particolare”.
In realtà il visto particolare è il cosiddetto visto per persone di abilità straordinaria, che gli Stati Uniti concedono, come si legge nell’ufficio competente, «a persone che, nell’ambito delle scienze, dell’arte […] abbiano conseguito un prolungato e internazionale successo. Una sorta di riconoscimento dell’eccellenza, e della comprovata straordinarietà del proprio lavoro».
“È un ambito piccolo il nostro, è facile farsi pubblicare ed avere una buona eco”.