Romagna e industria 4.0

Emilia Romagna: una Regione “innovatrice moderata”

Stando al rapporto 2016 della Commissione Europea sull’innovazione nelle Regioni (Regional Innovation Scoreboard 2016) l’Emilia Romagna era e resta una “innovatrice moderata”, con un  declino dell’indice negli ultimi due anni (in linea col resto d’Europa).

Per intenderci, nella graduatoria delle 214 Regioni d’Europa per capacità d’innovare, il gruppo degli innovatori moderati viene al terzo posto, dopo gli “innovatori leader” (tipo Stuttgart, Freiburg, Berlin e altri per la Germania) e gli “innovatori forti” (Hannover in Germania, Paese Basco in Spagna, ecc.), precedendo solo gli “innovatori modesti”, che chiudono la classifica.

I punti deboli dell’Emilia Romagna, nei confronti delle altre Regioni europee, si riferiscono alla scarsa collaborazione tra piccole e medie imprese, il basso numero dei laureati (ricordiamo che in Italia i laureati sono il 23% della popolazione 25-35 anni, contro una media Ocse del 40%) e gli investimenti pubblici  insufficienti per ricerca e sviluppo.

L’Emilia Romagna si eleva, invece, sopra la media per l’occupazione nelle aziende ad alta intensità di conoscenza, l’esportazione di prodotti ad alta tecnologia e l’innovazione dei processi produttivi.

Per contestualizzare, bisogna aggiungere che nessuna regione italiana figura tra gli innovatori leader (che in totale comprende 36 regioni), solo due ( Piemonte e Friuli Venezia Giulia) rientrano tra quelle forti (65 regioni), ben diciotto tra le innovatrici moderate (83 regioni) ed una tra i modesti (che riunisce 30 regioni).

Un problema, il deficit d’ innovazione, che riguarda l’Emilia Romagna, ma in complesso tutta l’Italia.

L’Industria 4.0 per la Romagna

Ma che cos’è l’industria 4.0 ?   E’ la rivoluzione industriale del XXI secolo, la quarta in più di duecento anni di storia occidentale: la prima, alla fine del XVIII secolo, è stata caratterizzata dall’introduzione del telaio meccanico (1784) e dallo sfruttamento dell’energia del vapore; la seconda, inizio XIX secolo, dall’avvento della produzione di massa con metodi tayloristici (1870: prima catena di montaggio nei mattatoi di Cincinnati, USA) e dall’arrivo dell’energia elettrica. Nella seconda metà del XX secolo, l’informatica caratterizza la terza fase con l’introduzione del  computer che ha rivoluzionato processi, elaborazione, immagazzinamento e trasmissione di dati.

L’uso di sistemi digitalizzati caratterizza invece la quarta fase: la connessione tra oggetti (computer, attuatori, sensori), che attraverso internet, progressivamente meno caro, è resa possibile congiuntamente alla disponibilità di sensori e attuatori sempre più piccoli, meno costosi e di basso consumo.

Industria 4.0 non è una tecnologia, ma un insieme di tecnologie che sfruttano internet per dare corpo a nuove modalità di produzione.  La manifattura (che vale il 15% del pil italiano e il 23% dell’occupazione, senza dimenticare che l’Italia, dopo la Germania, è la seconda manifattura d’Europa)  rimane centrale alla produzione industriale, ma non va più considerata come una sequenza di fasi separate, bensì come un flusso integrato, tenuto insieme dalle tecnologie digitali.  Dove tutte le fasi sono gestite e influenzate dalle informazioni rilevate, comunicate e accumulate lungo l’intera catena: dalla progettazione all’utilizzo, fino al servizio post-vendita.

La connessione tra oggetti attraverso internet (internet delle cose) è resa possibile dalla disponibilità di sensori e attuatori (congegni in grado di collegare la componente digitale con quella meccanica degli oggetti)  sempre più piccoli.    Già ora, 14 miliardi di sensori sono collegati a magazzini, sistemi stradali, linee di produzione in fabbrica, rete di trasmissione di energia elettrica, uffici, abitazioni. Nel 2030, si stima che più di 100 miliardi di sensori collegheranno l’ambiente umano e naturale in una rete globale intelligente e diffusa.

La natura di questa rivoluzione tecnologica implica che il confine tra manifattura e servizi divenga sempre meno netto, così la separazione tra componente fisica e parte digitale.

I risultati, della digitalizzazione della manifattura, sono  un incremento della flessibilità della produzione, impianti  prontamente modificabili, per lotti di produzione sempre più piccoli e personalizzati.

Qualche esempio può aiutare a comprendere: nello stabilimento Bosch in Baviera (Germania), scrive una indagine conoscitiva su Industria 4.0 della Commissione attività produttive della Camera dei Deputati,  si producono sulla stessa linea, con velocità simili alla produzione tayloristica, ben 12 mila varianti di impianti ABS per automobili. Questa flessibilità favorisce anche l’innovazione, poiché prototipi o nuovi prodotti possono essere realizzati rapidamente senza complicate riconversioni o l’installazione di nuove linee di produzione.

I tempi produttivi si accorciano, perché progetti digitali e modellazione virtuale del processo di fabbricazione riducono il tempo tra la progettazione di un prodotto e la sua consegna al cliente. McKinsey, una società di consulenza,  calcola dal 20 al 50% la riduzione del time to market (tempo che intercorre tra l’invenzione e l’arrivo sul mercato).

Con la digitalizzazione della produzione migliora anche la produttività.  Altro esempio: l’utilizzo di programmi di manutenzione preventiva (con i sensori che informano sullo stato della macchina) può ridurre i tempi di fermo macchine dal 30 al 50%,  con un taglio dei costi di manutenzione dal 110 al 40%.

Un recente documento di Assolombarda, che ha per titolo proprio Industria 4.0, elenca cinque aree tecnologiche ritenute strategiche per l’implementazione di Industria 4.0:  robotica collaborativa, controllo e supervisione avanzati del processo produttivo, fabbrica digitale, internet delle cose e grandi dati, sicurezza digitale (cyber security).

Lo stesso documento sottolinea, però, che per il passaggio al modello 4.0  l’Italia è già in ritardo di due-tre anni.   Tra le condizioni di contesto favorevoli ci sono: buon tessuto imprenditoriale, vitalità delle imprese e  buona reputazione internazionale di investimenti esteri in R&D.  Accanto, però, a condizioni sfavorevoli che frenano  il processo come: il debole supporto istituzionale alle iniziative Manifattura 4.0; la mancanza di incentivi e di supporti finanziari; una PA e burocrazia non favorevoli alle imprese; una diffusa cultura anti industriale; programmi delle scuole tecniche in parte obsoleti;  imprese troppo piccole e resistenti al cambiamento; mancanza di integratori di alto livello; infrastrutture pubbliche non sviluppate; problemi di cyber-security.

Il documento ha come riferimento le imprese della Lombardia, ma l’Emilia Romagna (tra l’altro entrambi le Regioni rientrano tra le “innovatrici moderate”) non è troppo diversa. E forse la Romagna, salvo eccezioni, è ancora un gradino più indietro, come testimoniato dalla minore attrazione per gli investimenti esteri.

Tra le proposte per la Lombardia, forse importabili, c’è l’istituzione di un Digital Innovation Hub (un centro per l’innovazione digitale) che dovrebbe fungere da ponte tra ricerca e imprese, in particolare le PMI.  Per l’Emilia Romagna, la rete dei Poli tecnologici potrebbe essere il contenitore adatto per questi hub. Ma non verrà da solo, qualcuno ci deve pensare e realizzare.

Ultimo, non meno importante, industria 4.0 è una sfida tecnologica e insieme occupazionale, perché si parla della fine o trasformazione di cinque milioni di posti di lavoro  solo nei paesi più industrializzati del mondo.