L’economia come “arma” ideologica

“Non mi aspetto insolvenze o semi insolvenze delle grandi istituzioni finanziarie”. Così parla Ben Bernake, Presidente della Federal Riserve (la Banca centrale americana) nel dicembre del 2007, cioè pochi mesi prima che scoppiasse la più grave crisi finanziaria mondiale, dopo quella degli anni trenta, che infatti, trascorsi cinque anni,  continua ancora a  produrre i suoi effetti nefasti.

Prima di lui si era dichiarato “scioccato” e “incredulo” di fronte alla crisi, il suo predecessore Alan Greenspan, Presidente della Fed dal 1987 al 2006, da sempre cantore della capacità di autoregolazione dei mercati finanziari.

Se queste sono le capacità di previsione dei processi economici dei Presidenti della più potente Banche centrale del mondo, quella americana, cui certo non mancano i mezzi, non c’è da stare molto tranquilli. Quando dicevano che le cose andavano bene, non si basavano né su dati oggettivi, né sulla storia delle crisi finanziarie (istruttiva la lettura di Reihart-Rogoff, Questa volta è differente, otto secoli di follie finanziarie),  ma sulla loro ideologia economica che assegna al mercato le migliori virtù, a prescindere dagli attori, dalle regole (che non c’erano e se c’erano non sono state rispettate) e soprattutto dagli esiti.

Un fallimento totale di cui gli economisti dovrebbero vergognarsi, lo ha fatto rilevare anche la Regina Elisabetta d’Inghilterra, mentre sono stati in pochi ad aver fatto ammenda.

Poi come conseguenza della crisi finanziaria sono arrivate, non a caso consigliate dalla stessa scuola liberista che non aveva visto l’arrivo del disastro precedente, le famose ricette di austerità per rimettere i conti pubblici di molti stati come la Grecia, passando per l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e infine l’Italia,  in ordine.  Che i conti di questi stati non fossero a posto è un fatto, ma che le ricette di un taglio generalizzato della spesa, dai servizi sociali alla salute, fosse la migliore ricetta per rimettere gli stessi in equilibrio è tutta da dimostrare.

E infatti dopo cinque anni contrassegnati dalle politiche di austerità, che invece di migliorare hanno peggiorato la crisi,  portando la disoccupazione e il debito pubblico a livelli record (in Irlanda il debito pubblico è salito dal 25 al 140% del Pil, in Italia dal 106 al 127%  e in Grecia dal 113 al 175% del Pil), è lo stesso Fondo Monetario Internazionale (FMI), sostenitore, non da solo, di queste politiche, a dichiarare per l’ennesima volta che si sono sbagliati. Avevano calcolato, con i loro super sofisticati modelli econometrici, che per ogni euro di spesa tagliata l’economia si sarebbe ridotta di 0,5 euro, invece è capitato che l’effetto sia stato di un calo superiore a 1,5 euro (tra 0,9 e 1,7 secondo i Paesi), in pratica tre volte maggiore. In sostanza sono stati “sotto-stimati gli effetti moltiplicatori dell’austerity come freno alla crescita”.

“Abbiamo sbagliato le stime sugli effetti negativi delle politiche di rigore chieste agli Stati con i conti pubblici non a posto; le politiche di rigore che abbiamo chiesto hanno prodotto la più grave crisi recessiva che si ricordi. E ora dobbiamo rimediare” ha dichiarato  il capo economista del FMI  Olivier Blanchard.

Qualche economista, pochi (Krugman, Stiglitz, ecc.), aveva messo sull’avviso che troppa austerità avrebbe fatto correre il rischio di estirpare il male portando a morte il malato, ma non sono stati ascoltati, almeno fino all’ultima ammenda. Perché le altre ricette erano migliori ? Come si è visto NO. Semplicemente perché una ideologia economica (quella liberista, che è diversa dalla liberale) ha prevalso su considerazioni più ragionevoli e anche documentate. Questo dimostra che anche una materia fatta di tanti numeri, come l’economia, si può facilmente manipolare a seconda delle intenzioni. Forse gli economisti dovrebbero essere più umili e tornare ad occuparsi di più di economia reale prima e di modelli poi. Non pretendere che la prima si adatti alla seconda.