Profili professionali difficili da trovare

di Mirco Paganelli

Ogni anno c’è un report che lascia spiazzati, quello sulle professioni introvabili. In tutta Italia sono 29 mila i profili di difficile reperimento solo tra le prime dieci professioni in classifica; 8.500 non si trovano proprio, lasciando scoperti altrettanti posti di lavoro (dati CGIA Mestre). Pare strano pensando alla disoccupazione giovanile al 45%, eppure quella dei lavoratori che non si trovano sembra essere una costante fisiologica del mercato del lavoro.

Il Rapporto di Unioncamere sulla provincia di Rimini segnala che i difficili reperimenti riguardano il 5 per cento delle assunzioni totali previste per il 2014: circa 560 casi. Mentre, secondo l’elaborazione di TRE sui dati Istat, i disoccupati under24 sarebbero circa 2.600. C’è da dire che il trend delle ostiche assunzioni è in forte diminuzione negli anni della crisi, anche se una simile comparazione di dati continua a suscitare interrogativi sull’efficienza dell’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, sulla qualità della formazione, sul rapporto scuola-lavoro e sull’uso che si fa dei finanziamenti pubblici per l’occupazione.
In questa sede ci occuperemo delle imprese e della loro difficoltà nel reperire personale. Quali sfide pone il mercato globale e quanto queste incidono sulla ricerca e selezione dei candidati? Lo abbiamo chiesto ai reparti HR (risorse umane) di alcune importanti realtà del nostro territorio.

Aeffe: “Una trentina di candidati al giorno ma requisiti insufficienti”

Certi profili specifici sono difficile da scovare per Aeffe, impresa di moda di San Giovanni in Marignano, con oltre 500 dipendenti. “Dipende dalle aree – spiega il selezionatore del personale Alessandro Drudi -. Un profilo junior o un contabile non creano problemi. Ma se cerco profili intermedi, senior o tecnici, come la magliaia, le cose si complicano. Il candidato senior sta probabilmente ancora lavorando per un’altra azienda, quindi ci sono da tenere in considerazione i tempi per le dimissioni. La magliaia è una figura in genere non giovane, quindi difficile da raggiungere tramite gli annunci online o i centri per l’impiego; meglio col passaparola. Sono l’incrocio tra le specificità del ruolo ricercato e la tempistica in cui bisogna ottenerlo che determinano il grado di difficoltà nella selezione”.
Che una posizione aperta lasci la scrivania di Aeffe priva di curriculum, è raro, mentre sono all’ordine del giorno i candidati con requisti insufficienti.
“Ne arrivano una trentina al dì, ma assumiamo solo chi rispetta al 100 per cento le nostre richieste. Non ci accontentiamo mai di vie di mezzo. Tanti provano a candidarsi anche se hanno esperienze trasversali o insufficienti. Se indichiamo 5 anni di esperienza, rispondono anche i neolaureati, ma formarli richiede del tempo e noi siamo una società quotata in borsa, quindi pensiamo al budget dell’anno prossimo e alla forza lavoro”.
Drudi apprezza in particolare l’efficacia dei portali web del lavoro, come fashionjobs.com, perché consentono di vedere chi è disponibile in un dato momento e settore. Per quanto concerne la formazione dei candidati, chi proviene dall’indirizzo di Moda del campus di Rimini – segnala il selezionatore – manca di esperienza di laboratorio, trattandosi di un corso legato alla Scuola di Lettere e Beni culturali. Invece gli adepti di Polimoda, Ied o Secoli “hanno un’expertise molto definita. Talvolta impariamo noi da loro”.
Tutti quanti però dimostrano molta distanza dal mondo del lavoro, “ecco perché ricorriamo al tirocinio per conoscere il giovane, soprattutto ora che non siamo in una fase di espansione dell’organico. Non basta il colloquio per valutare le competenze e passare a un contratto. In passato i tirocini sono stati accompagnati da ottime percentuali di placement (inserimenti, ndr).
La dote più richiesta? “La flessibilità mentale, qualcosa che non si impara a scuola, ma grazie alla famiglia che è la prima a dare l’imprinting all’individuo. La flessibilità mentale è un valore culturale. Se al colloquio, tra le prime domande, si chiede quanti sono i giorni di ferie, si capisce che il candidato non ha passione per il lavoro. Il periodo è duro e, dovendo rispettare un budget, ciascuno viene valutato con la lente d’ingrandimento”.

Focchi: il canale preferito per le assunzioni? La scuola

Il Gruppo Focchi di Poggio Torriana ha rinunciato a trovare candidati su misura, quindi se li forma da sé. “Da un lato, per una tradizione culturale, c’è una scarsissima conoscenza della lingua inglese da parte dei giovani, soprattutto del nostro territorio, quando invece i nostri clienti inglesi richiedono interlocutori pari a loro sul piano linguistico – spiega la responsabile delle risorse umane, Paola Arcangeli -. In più, la tecnologia di cui ci occupiamo è di nicchia (sistemi di facciata continua), per cui capita molto di rado di imbattersi in profili con esperienze analoghe, nonostante li cerchiamo in tutta Italia: forse succede una volta ogni tre anni”.
Dunque sono notevoli gli investimenti che il gruppo mette in campo per i propri giovani (corsi di inglese one-to-one, periodi all’estero e formazione tecnica). Questi vengono intercettati subito all’uscita da università e istituti superiori.
Il lavoro del selezionatore è cambiato, sostiene Arcangeli: “È quadruplicato, arrivano tantissimi cv. Ed è venuto meno il mito dell’ingegnere libero professionista. Complice la crisi, i ragazzi di oggi desiderano inserirsi in azienda e questo ci facilita”. Il canale preferito per le assunzioni è la scuola. Sono forti i legami con i docenti e viene indagata la personalità degli studenti quando ancora studiano.

New Factor: “Tra i banchi formazione troppo teorica”

Un’altra azienda locale che compete su piazze internazionali è la New Factor di Coriano. La sua frutta secca paga lo stipendio ad oltre 50 dipendenti e quando si tratta di ampliare l’organico (qualche unità all’anno) “è più difficile trovare nei candidati le capacità orizzontali rispetto a quelle tecniche – afferma il responsabile per la formazione interna, Alessandro Zampagna -. È più facile individuare il titolo da tecnologo alimentare rispetto alla dimestichezza nei rapporti umani”.
Anche per lui il problema sta nello scarso dialogo tra scuola e mondo del lavoro: “Chi viene dall’università, o da altri percorsi formativi, dimostra forti carenze organizzative più che tecnologiche. La comunicazione in ambito lavorativo è debole: in azienda bisogna saperci stare”.
Mentre gli istituti del nord-europa sfornano professionisti con un vasto bagaglio di esperienze sul campo sulle spalle, in Italia la conoscenza dispensata tra i banchi è più che altro teorica. Brevi e timidi tirocini fanno da tappa buchi.
“I candidati non sanno gestire progetti né organizzare il lavoro – prosegue -. Non ci interessa solo la professionalità tecnica. Bisogna saper lavorare in team, condividere il lavoro e risolvere problemi. Ricerchiamo competenze come lo saper scrivere bene, comunicare via email o via skype, oltre alla conoscenza delle lingue straniere per relazionarci con i clienti esteri”.
Doti talmente importanti che, quando si tratta di figure manageriali e commerciali, prevalgono sulla tipologia di diploma di laurea: “Il saper comunicare ha la priorità. Il percorso di studi può essere di diverso tipo”.
Di formazione derivante da corsi professionalizzanti se ne vede di tutti i tipi, “casi buoni e meno buoni. Ci sono corsi che prevedono solo 20 giorni di tirocinio in azienda. Inutili: non si impara niente e si disturba soltanto chi lavora. I periodi di pratica devono essere più lunghi”.

Il punto di vista degli enti di formazione

Che i giovani appena usciti dalla scuola non siano adeguatamente preparati al lavoro perché lontani dalle dinamiche aziendali, lo denunciano gli imprenditori di tutta Italia, non solo quelli intervistati da TRE. Per di più, e sono gli stessi enti di formazione ad ammetterlo, non si riesce sempre ad addestrare adeguatamente i ragazzi perché spesso le aziende ricercano profili professionali troppo specifici, non trattati dai più generici corsi per disoccupati, e in campo non ci sono le risorse per formare figure ad hoc per ogni posizione.
Dal Cescot di Rimini, invece, la responsabile Licia Piraccini pone l’accento su un sistema educativo che non trasmette più nei giovani i valori della flessibilità e della ‘gavetta’: “C’è ancora chi, residente a Rimini, rifiuta un impiego a Bellaria perché troppo lontana. Manca poi l’orientamento nella scelta, spesso stereotipata, che finisci per indirizzarsi verso programmi scolastici poveri di esperienze e di alternanza scuola lavoro”.
In un dato contesto, all’impresa non resta che investire sulla formazione interna, tagliata su misura, o avere la fortuna di trovare un candidato con la specifica competenza ricercata, acquisita magari altrove, in un’azienda identica alla propria.