Oltre il localismo, con il territorio, sul mercato globale

Intervista a Carlo Pignatari, Direttore CNA Innovazione

di Carlo Pantaleo,  dell’Associazione Nuove Generazioni

Il secondo dei seminari “Lo sviluppo locale oltre la crisi, dalla teoria alla pratica” ha come titolo Economie locali per lo sviluppo – Innovazione, occupazione e territorio”. Fra i relatori c’è il dott. Carlo Pignatari, Direttore di CNA Innovazione che collabora attivamente allo sviluppo e alla ricerca di modelli per la crescita e l’innovazione gestionale delle imprese.  In particolare recentemente ha studiato 50 casi di imprese emiliane-romagnole, selezionate tra quelle che hanno dimostrato eccellenti performances e che hanno fatto rete e si sono internazionalizzate. 

In tempo di crisi economica diventa ancor più importante lo sviluppo locale. Quali leve muovere per innescare lo sviluppo autonomo di aree produttive territoriali fortemente specializzate, come lo sono quella riminese riguardo turismo e manifatturiero?

 Senza pretendere di fornire risposte risolutive a un problema molto vasto come quello esposto nella domanda, posso provare a portare alcuni spunti che mi arrivano da anni di lavoro con le piccole imprese. Nella mia esperienza, che parte da un punto di vista micro-economico, ho trovato decisive la capacità imprenditoriale, la voglia di rischiare in proprio, l’impegno e lo sforzo di credere in qualcosa. La prima leva secondo me, dovrebbe essere nel cercare di non soffocare questa imprenditorialità diffusa che ha costruito il tessuto produttivo italiano.

Oggi tutto questo non basta più, ma è la premessa necessaria a qualsiasi evoluzione. Riconoscere che il sistema italiano, fatto di piccole imprese di solito dotate di grandi competenze tecnico produttive e abilità nel saper fare, sia stato un modello quanto meno non peggiore di altri modelli molto più celebrati potrebbe essere una prima base da cui partire. Siamo un paese di piccole e piccolissime imprese con una forte vocazione in settori per lo più tradizionali.

I settori tradizionali devono ambire a rinnovarsi, la piccola dimensione è spesso insufficiente a competere in spazi che hanno per orizzonte un mercato mondiale.

Si potrebbe provare a partire allora dai meccanismi che hanno funzionato nei distretti quali la spinta a imitare e superare il proprio vicino che è in ogni impresa e ancor prima, in ognuno di noi. Qualcuno la ha chiamata invidia creativa e credo che sia una motivazione importante per migliorare e crescere. Questo meccanismo deve però essere liberato dal vincolo territoriale perché spesso è inutile imitare oggi il nostro vicino che ha fatto un piccolo miglioramento incrementale per scoprire che qualcuno da un’altra parte del mondo ha trovato una tecnologia radicalmente innovativa che azzera il problema di cui ci si sta occupando. Ancora di più, oggi a fare la differenza sono spesso elementi intangibili quali le modalità organizzative, i modelli distributivi, il brand e l’immagine aziendale. Se si vuole allora stimolare la creatività nelle nostre imprese dobbiamo aiutarle a allargare l’orizzonte di riferimento e consigliare loro di guardare non più solo a ciò che è tangibile, ma al servizio, all’immagine, alle modalità organizzative, alla forza di presentarsi in gruppo e in modo coordinato invece che da singoli.

 I Comuni, le Provincie, storicamente sono state il riferimento dell’Italia, il tessuto sul quale si è creato quel municipalismo naturale che ha costruito l’Italia. Quali sono i punti di forza e le azioni che dal livello locale è possibile attivare per fronteggiare la crisi -che è di tipo internazionale e finanziaria- e vincere così la sfida?

 Credo che la dimensione locale possa ancora essere un valore. Le banche che centralizzano le decisioni seguendo modelli di rating che non appartengono al nostro sistema culturale e si allontanano dalla dimensione territoriale, perdono gran parte della capacità di discernere tra piccole imprese che non sono più in grado di far fronte all’indebitamento e imprese altrettanto piccole, ma estremamente solide da un punto di vista finanziario. 

Così per le imprese che dimenticano il sistema produttivo locale in cui sono cresciute per andare a produrre all’estero. Sono libere di farlo, ma dovrebbero considerare tra i costi nel lungo periodo anche la perdita di quel radicamento sul territorio che ha permesso loro di affermarsi. Una volta sradicate saranno un po’ più simili a tutte le altre imprese.

Cosa possono fare i territori? Promuoversi e vendersi. Per farlo dovrebbero però rinunciare a parte di quei localismi che ancora ci appartengono. Sul mercato globale la piada riminese non compete con quella ravennate, ma con la tortilla.

 Si parla spesso di reti di imprese che si formano per competere e innovare sempre più a livello internazionale. Come si possono realizzare tenendo conto del valore aggiunto che possono rappresentare le dinamiche territoriali?

 Le Reti di impresa sono oggi l’ultima moda. Diremmo per fortuna, ma si consideri il pericolo delle mode. La certificazione di qualità dovrebbe averci insegnato qualcosa sotto questo aspetto. Bisognerebbe allora valutare come le reti di impresa non nascano oggi e come siano pre-esistenti alla legge sul contratto di impresa del 2009. Le imprese italiane hanno dimensioni così piccole che hanno sempre dovuto collaborare e integrarsi. Oggi potranno avere maggiore visibilità, creare fondi di garanzia e essere formalmente riconosciute. Quel che farà la differenza alla fine, tuttavia, sarà se le reti di impresa potranno effettivamente produrre a costi più bassi o raggiungere nuovi mercati.

 I piani strategici locali (sulla scia dell’esperienza spagnola) di cui si discute anche a Rimini, sono una risposta adeguata per dare ai territori una visione di futuro praticabile, compreso una maggiore
capacità competitiva? E in quali condizioni hanno dimostrato di poter funzionare?

 Con la struttura che dirigo abbiamo sperimentato alcuni anni fa attività di progettazione compartecipata in alcuni territori quali Fusignano in Romagna o la Val’d’Enza tra Reggio e Parma. Sono state esperienze estremamente positive. Avviate dal pubblico hanno visto le imprese partecipare a definire insieme dove portare il proprio comune o distretto. Funzionano quando c’è la volontà del soggetto pubblico, delle imprese e dei privati, ma anche quando li si realizza con metodo e professionalità. Esistono metodologie che  abbiamo sperimentato come quella degli EASW (European Awareness Scenario Workshop) che sono, secondo noi, indispensabili per non ricadere nell’improvvisazione e buona volontà.

 La crisi ha portato, anche a Rimini, la perdita di diverse imprese e posti di lavoro. Su che cosa o su quali nuove attività questo territorio potrebbe puntare per ridare slancio al suo sviluppo,
allargando il ventaglio delle opportunità?

 Certo non si può rimanere fermi. Ma sarebbe velleitario decidere di riprogettare il nostro territorio e trasformarlo – come spesso si sente – in una piccola silicon valley. Più sensato appare ripartire da ciò che siamo. Dalla grande componente manifatturiera per innovarla negli usi e nei significati. Ad esempio nelle forme, con reti  che permettano di raggiungere nuovi mercati o nei canali, per esempio sfruttando le enormi potenzialità che ci offre il WEB 2.0. Oppure dal turismo, evitando però di promuovere territori troppo specifici per clienti lontani che faticano a distinguere l’Italia dalla Germania.

Più che riprogettare un nuovo radicalmente diverso varrebbe forse la pena di stimolare le innovazioni che i tanti piccoli campioni nascosti presenti anche sul territorio riminese, come racconta il libro 51 Storie di successo aziendale. Il pubblico dovrebbe scoprire e valorizzare queste come altre imprese eccellenti presenti sul territorio e dar loro visibilità. A patto che le imprese si impegnino, queste continuino a investire nel futuro e a farlo facendo attenzione al luogo da cui provengono, per appoggiare il loro successo sulla rete – formale o meno- che si innerva sul territorio.