Metalmeccanici: del doman non v’è certezza

Tra i settori industriali di questa provincia (nel complesso poco meno di tre mila aziende, di cui circa mille nel metalmeccanico, con 39 mila addetti)  il comparto metalmeccanico occupa sicuramente un posto di rilievo. Composto da aziende spesso poco conosciute, magari perché uscite relativamente indenni dalla crisi, senza dare modo alla stampa di occuparsene,  formano un sistema che rappresenta un nerbo importante per la nostra economia, anche perché paga salari abbondantemente superiori ai servizi (ricordiamo che a Rimini le retribuzioni medie sono le più basse della Regione).

Non fare cronaca, salvo rari casi,  non vuol dire però assenza di problemi, tanto più quando si è nel bel mezzo ad una crisi che  non accenna a passare, come il ritorno improvviso alla cassa integrazione di molte aziende sta a dimostrare.

Una panoramica sullo stato del settore, o almeno parte di esso, e una raccolta degli umori e dei timori che si agitano tra gli occupati li abbiamo raccolti incontrando un gruppo di delegati convenuti a Rimini per una riunione del sindacato Fiom, i metalmeccanici della Cgil.

Il primo a raccontarci come vanno le cose è Marco Lisi della ditta Krona Koblenz di Coriano. L’Azienda produce sistemi scorrevoli per porte, armadi e mobili, che in buona parte esporta all’estero,  e da lavoro a un centinaio di persone. Da loro la crisi è passata senza lasciare troppi segni, a parte una decina di interinali che sono stati lasciati a casa per un certo tempo, poi  richiamati, in parte, quando il peggio è stato messo alle spalle.  Però questo non significa che tutto sia rimasto uguale. A differenza dal passato, quando si pianificava  a medio-lungo termine,  oggi si naviga a vista e si produce lo stretto necessario, ma niente di più.  Sono stati fatti tentativi, riesumando il vecchio cronometraggio dei  tempi di lavorazione, per migliorare la produttività, ma con scarsi risultati. Anzi, non essendoci scorte in magazzino, a volte  capita di restare fermi per mancanza di componenti.

Della Paglierani di Torriana, un’azienda fondata nel lontano 1926 e che fa parte di un gruppo omonimo con altri sei stabilimenti sparsi nel centro-nord Italia, ci parla invece Massimo Pagliarani. L’Azienda occupa una settantina di dipendenti, che guadagnano in media 1.300/1.400 euro mensili, e produce macchine e sistemi per pesatura, confezionamento, insaccatura (dalla farina al cemento), palettizzazione ed avvolgimento dei carichi palettizzati (un po’ come si fa con le valige negli aeroporti), che in massima parte prendono la strada dell’estero, dall’Europa all’America, dall’Africa al sud-est asiatico. Dalla crisi sono stati sfiorati, nel senso che c’è stato un calo del lavoro, ma non toccati in modo grave,  tanto che non c’è stata nessuna richiesta di cassa integrazione.  Però oggi l’incertezza è grande e le commesse contate. Far parte di un gruppo un po’ aiuta, perché spesso le aziende  si scambiano componenti, ma di nuove assunzioni non se ne parla, a parte qualche sostituzione di persone che cambiano lavoro o vanno in pensione (due-tre l’anno).

Con Silvia Peruzzi  affrontiamo invece la situazione della ditta  Indel B di Sant’Agata Feltria, dove B sta per Berloni, il gruppo che fa mobili nel pesarese ed a cui appartiene (insieme a Condor B, 70 addetti, sempre a Sant’Agata).  Indel B, azienda nata nel 1967,  non fa però mobili bensì impianti di refrigerazione, specializzata nella produzione di minibar, piccoli frigoriferi per camion e auto, aria condizionata da parcheggio per camion, frigoriferi per imbarcazioni, ecc.  Una parte della produzione finisce all’estero, magari sui camion Scania, Volvo e altri grandi costruttori.  Indel B vende ma produce anche all’estero, nello specifico in Cina, dove ha delocalizzato un impianto. Occupa circa duecento dipendenti, con salari tra 900 e 1.100 euro mensili,  e la crisi l’ha colpita pesantemente, soprattutto nel 2009, quando l’Azienda è stata costretta a chiedere l’intervento della cassa integrazione ordinaria. Qualcuno restando a zero ore per diversi  mesi,  prima di applicare i contratti di solidarietà, che sono durati fino a dicembre 2010. Col  2011 la crisi sembra superata e il lavoro, molto legato alla stagionalità  perché è d’estate che si acquistano gli impianti, è tornato regolare. Ma a differenza dal passato gli orizzonti si sono accorciati ed oggi è difficile fare previsioni che vadano oltre i due mesi. Non si fa più magazzino, che potrebbe rimanere invenduto, e si produce solo su ordinazione. Qualche volta i camion arrivano a caricare  prima che il lotto sia finito. La crisi è stata affrontata in prima battuta rifacendo il trucco a vecchi prodotti (restyling) e tentando di migliorare l’organizzazione del lavoro, che comunque è rimasta sostanzialmente la stessa. Per  il futuro sono in previsione nuovi prodotti, ma al momento non c’è niente di definito.  Ovviamente di nuove assunzioni nemmeno a parlarne, e una decina di lavoratori con contratti  a termine,  che vengono rinnovati di tre mesi in tre mesi, non sanno ancora quando potranno passare a rapporti di lavoro più stabili.

Per ultimo, non certo per importanza, la situazione alla SCM di Rimini e Villa Verucchio, che al contrario delle altre ha goduto, per le sue vicissitudini,  di una discreta copertura giornalistica. I termini sono noti: colpita dalla crisi il Gruppo SCM, che ricordiamo è leader mondiale per la produzione di macchine per il legno, ha subito un pesante crollo del fatturato che è sceso da 646 miliardi di euro del 2007 a 373 miliardi del 2009, quindi un meno 42 per cento, per risalire a circa 400 miliardi nel 2010.  Questo ha voluto dire la messa in cantiere, da parte di una nuova dirigenza che nel frattempo si è insediata, di un piano di ristrutturazione  che ha interessato l’intero Gruppo, accompagnato da oltre due anni di cassa integrazione, scaduta il 6 settembre 2011.  Quando però la situazione sembrava normalizzarsi, anche se la crisi era lontana dall’essere completamente riassorbita (gli ultimi dati, resi noti dal Sole 24 Ore, sulle esportazioni delle macchine per il legno del Distretto di Rimini indicano, per il primo semestre 2011, un più 25 per cento sullo stesso periodo del 2010),  un po’ a sorpresa  l’Azienda, che a settembre 2011 mantiene  a Rimini un totale di 1.779 addetti (181 in meno rispetto a dicembre 2007), annuncia la richiesta di licenziamento per 45 dipendenti e la cassa integrazione di un altro anno per  1.316, di cui 260 a zero ore, spalmati tra i diversi stabilimenti.  Inevitabili le polemiche e la reazione dei lavoratori e dei sindacati. Ovviamente critici i delegati, rappresentanti dei lavoratori, che muovono diversi rilievi.  Il primo  è quello di non aver coinvolto i lavoratori nell’elaborazione del piano di ristrutturazione. Le riunioni sono state fatte per informare ma non per condividere e chiedere di partecipare. Il secondo, di non aver saputo gestire, la nuova dirigenza, la ristrutturazione,  col risultato di causare, in piena mancanza di lavoro, perfino ritardi nella consegna delle poche macchine richieste,  lasciando insoddisfatti i clienti.  La difesa sostiene che la nuova organizzazione della produzione è ancora in fase di rodaggio. La terza critica  parla di una sottovalutazione della capacità di reazione, sempre alla crisi, degli altri produttori, i quali invece di sparire dal mercato, lasciando un vuoto che sarebbe stato, negli auspici, riempito dalla SCM, si sono riorganizzati  ed oggi sono diventati degli agguerriti concorrenti. La quarta è quella di non aver prodotti nuovi, a parte qualche aggiornamento di vecchie macchine, da presentare sul mercato, al contrario dei concorrenti tedeschi.  Questo riguarda soprattutto lo stabilimento di Villa Verucchio, dove si fanno le macchine più tradizionali.

E’ un po’ diverso nell’impianto di Rimini, dove si costruiscono modelli  più complessi. Qui si è fatta innovazione, anche se meno del necessario, ma si lamentano investimenti in nuove macchine lo stesso insufficienti rispetto alla concorrenza e tempi di consegna (5-6 mesi) non più competitivi.  Prova ne sia che all’ultima fiera di settore di Hannover la SCM si è presentata con le stesse macchine, al massimo rivisitate,  di un anno prima.

Questa situazione, accompagnata da un continuo cambio di dirigenti, quasi tutti nuovi (i vecchi sono stati mandati a casa) e provenienti da settori diversi dalle macchine per il legno, aumenta lo stato di incertezza  e  non fa stare tranquilli i lavoratori,  i quali spariti i premi di produzione (l’ultimo anno buono è stato il 2007) non portano a casa più di 1.100-1.300 euro mensili, e se in cassa integrazione molto meno. Incertezza, mancanza di fiducia, stanchezza e preoccupazione per il futuro stanno corrodendo l’attaccamento all’Azienda, la cui appartenenza un tempo veniva rivendicata con orgoglio.  Di questo la nuova dirigenza dovrebbe cominciare a tenerne conto.