Le politiche per il lavoro sono poco attive

Sottolineare quanto sia urgente, per la Romagna e per l’Italia intera, trovare soluzioni stabili al  tema della mancanza di lavoro è quasi superfluo  ripeterlo.  I vecchi Centri per l’Impiego (CPI) ci sono ancora ma funzionano al minimo sindacale, qualcuno parla addirittura di “caos istituzionale”,  in attesa che la nuova ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive per il Lavoro) dispieghi tutti i sui effetti.

Dal sito dell’ANPAL (www.anpal.gov.it)  leggiamo che  nella seduta della Conferenza permanente Stato Regioni del 22 dicembre 2016, è stato approvato, all’unanimità, l’accordo quadro tra il Governo e  le Regioni in materia di politiche attive per il lavoro 2017.  E stato confermato anche l’impegno del Governo e delle Regioni a reperire risorse per i costi del personale e per gli oneri di funzionamento, nella misura di 2/3 a carico del Governo e di 1/3 a carico delle Regioni.

Nel frattempo, dal 1 agosto 2016 è operativa l’Agenzia regionale per il lavoro,  che ha il compito di coordinare e gestire le funzioni svolte nei 38 Centri per l’impiego dell’Emilia Romagna, prima alle dipendenze delle Province.  Tra i compiti assegnati alla struttura vi sono le procedure per la concessione degli ammortizzatori sociali (disoccupazione), la certificazione delle competenze acquisite da esperienze svolte in luogo di lavoro e in generale tutte le attività volte a favorire l’occupabilità (come, ad esempio, Garanzia giovani) e la ricerca di lavoro. L’Agenzia, inoltre, gestisce il collocamento al lavoro delle persone con disabilità, promuovendo l’integrazione con i servizi sociali e sanitari per le persone fragili in cerca di lavoro.

Al punto in cui siamo, però, c’è una questione di riordino ma anche di rimotivazione: in buona sostanza,  a cosa devono servire i nuovi CPI ?   Ai tempi dei vecchi Uffici di collocamento, quando si doveva timbrare il cartellino rosa, l’ottanta per cento del lavoro se ne andava in pratiche amministrative e solo il restante venti per cento in ricerca attiva di lavoro per i richiedenti.  Nel momento migliore dei CPI questa proporzione si era ribaltata, cioè venti per la burocrazia e ottanta per le politiche attive. Oggi siamo tornati grosso modo ai tempi di partenza. Con riflessi anche sull’intermediazione, perché se nel 2008, in provincia di Rimini,  le persone che trovavano lavoro tramite i CPI erano salite al 20 per cento degli avviati, nel 2016 sono ridiscesi a poco meno del 6 per cento (contro un 3 per cento nazionale).

Per il “caos istituzionale” ma anche per il taglio del personale: solo nei sei CPI della provincia di Rimini, il personale, tra tempo indeterminato e determinato, è sceso da 48 del 2014 a 36 d’inizio 2017. Meno personale meno servizi, soprattutto di accompagnamento attivo alla ricerca di un inserimento lavorativo.

Questo è capitato in un periodo in cui la disoccupazione è tutt’altro che diminuita: infatti, nelle tre province di Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini, le persone in cerca di lavoro erano 33 mila nel 2010, ma sono diventate 43 mila nel 2015 (su un totale per l’Emilia Romagna di 75 mila), con un aumento del 30 per cento.

In buona sostanza il personale dei CPI è diminuito proprio mentre cresceva la domanda di risposte attive. Per semplificare: nel 2009, i 46 addetti al CPI di Rimini attendevano a 18 mila colloqui l’anno; nel 2015 i dipendenti sono scesi a 42  ma i colloqui sono raddoppiati a 36 mila.  Va da se che il tempo dedicato  ad ogni singolo disoccupato si dimezza. Con insoddisfazione di entrambi: del personale incaricato, che nonostante la buona volontà non riesce a soddisfare  la domanda; del richiedente lavoro che non ottenendo le risposte attese ne esce ancora più scoraggiato.

Per il 2017 la Regione prevede  140 assunzioni per tutti i CPI dell’Emilia Romagna: probabilmente una decina per provincia (considerando che Bologna se assorbirà di più). Una goccia nel mare dei bisogni. Per rendersene conto basta sapere che se nei circa 500 CPI d’Italia operano 9 mila persone, nelle 800 Agenzie per il lavoro della Germania superano 80 mila.  Cioè, in Germania, dove la disoccupazione è al 3,9 per cento mentre in Italia è al 12 per cento e in Emilia Romagna 6,1 per cento, per ogni ufficio equivalente ai nostri CPI ci sono 100 persone,  in Italia appena 18.

Svolgere politiche attive in queste condizioni, che vuol dire prendersi realmente cura della persona rimasta senza lavoro, accompagnarlo a rifarsi un curriculum spendibile, mantenere un rapporto costante con le imprese, le uniche che possono offrire lavoro, ecc., diventa sempre più difficile.

Non fosse altro perché la crisi e le trasformazioni delle imprese, in particolare quelle più dinamiche, hanno cambiato profondamente il mercato del lavoro. Che si è fatto più selettivo, e se vogliamo escludente.  Quando la richiesta era abbondante e l’offerta di lavoro scarsa, insomma quando l’economia tirava, le aziende erano disponibili ad assumere anche persone che non avevano proprio tutti  i requisiti richiesti. Oggi la realtà è cambiata. La domanda di lavoro è scarsa e l’offerta abbondante.

In queste condizioni a rischiare l’esclusione sono proprio le categorie più deboli (poca istruzione, professionalità deboli, con una certa età, ecc.). Per cui trovare lavoro a queste categorie è diventato dannatamente più complicato. Anche  perché, spesso, le persone non si rendono conto delle loro debolezze e non accettano ben volentieri i percorsi di reinserimento lavorativo consigliati (i Patti di servizio stipulati presso i CPI). Una persona che ha svolto per anni un lavoro, vuole continuare a farlo, anche se quella figura professionale adesso è meno richiesta o addirittura non esiste più.

Per rispondere a questa realtà, con una opera di convincimento e accompagnamento, richiederà non meno ma più lavoro, cioè servizi, da parte dei CPI.

Il discorso è diverso per le professionalità forti, che il lavoro se lo trovano da soli, senza bisogno di ricorrere ai CPI.

Anche nel lavoro stagionale, legato prevalentemente al turismo, la crisi sta cambiando profondamente  i comportamenti: perché se fino al 2005 i CPI della Riviera, per rimediare l’offerta giusta, dovevano diramare avvisi a candidarsi  in tutta Italia, soprattutto al Sud, dal 2011 fanno esattamente il contrario. Cioè cercano di dissuadere i provenienti da altre Regioni a non candidarsi, perché la manodopera locale, che comprende anche tanti immigrati residenti, è più che sufficiente.  Questo potrebbe essere inteso anche come il ritorno, dei locali, ad un lavoro che  per un certo tempo avevano snobbato.

BOX

Cercando lavoro

 Il giovedì pomeriggio, giorno in cui gli uffici rimangono aperti fino alle 17, nel CPI di Rimini non c’è molta gente. L’androne è un po’ buio e  le sedie per l’attesa sono vuote.  Chi arriva varca direttamente la porta degli uffici, dove i tempi di attesa per essere chiamati sono ridotti.  All’interno, tante postazioni, secondo le richieste.

Raccogliamo qualche storia.  Adriano, che dopo tanti contratti di breve scadenza è riuscito ad averne uno a tempo indeterminato in una importante impresa del mobile locale, sta accompagnando il figlio, in procinto di laurearsi, perché prenda contatto con il mondo del lavoro. Ci parla di come sta cambiando l’organizzazione del lavoro nella sua azienda, dove si danno all’esterno non solo, come un tempo, i lavori di pulizia, ma logistica, imballaggio e molto altro. Così lavoratori che partecipano alla stessa linea di produzione si trovano con datori di lavoro diversi, ma soprattutto contratti diversi.  Non è l’unica azienda del territorio a ricorrere a questa formula. Lo scopo evidente è quello di ottenere maggiore flessibilità (chiamo la ditta esterna, spesso una cooperativa, quando ne ho bisogno), ma anche ridurre l’organico direttamente alle proprie dipendenze.

Antonio è un pensionato, scruta e prende nota delle offerte di lavoro appese sui tabelloni alla ricerca di una opportunità per la fidanzata  di suo figlio, di Forlì, che prima di sposarsi, e trasferirsi, vorrebbe avere un impiego, anche “piccolo” a Rimini.

Una coppia, straniera, ma residente e “che paga le tasse a Rimini” ci tiene a precisare il marito, che ha fatto un po’ di tutto, cerca qualcosa da fare nel turismo.

Irina, una bionda signora ucraina, fa la sarta ed aspirerebbe, dopo tanti lavori precari, ad averne uno più stabile. Viene chiamato quasi subito e il colloqui finisce qui.

Lucia, 22 anni, diplomata segretaria d’azienda, è di Rimini. L’estate scorsa ha lavorato, come tirocinante  e con regolare contratto, senza pagamenti con voucher, in un ristorante della riviera. Vorrebbe trovare qualche lavoro anche per l’inverno, nella ristorazione come cameriera o qualsiasi altra cosa, se non c’è di meglio. Perché come segretaria d’azienda  gli richiedono l’esperienza, che purtroppo non è riuscita a farsi. Quindi il diploma rimane nel cassetto.

 

Alberto accompagna una sua amica, impegnata nel colloquio. Ma anche lui è senza lavoro e non trova facile incontrarne un altro. Faceva l’informatore scientifico per una importante casa farmaceutica, per 22 anni ha avuto un contratto da dipendente e guadagnava bene, poi gli viene proposto di passare alla partita IVA, praticamente di diventare autonomo. Non aveva molta scelta. Perde molti diritti (ferie, indennità varie, tredicesima, ecc.) e per tre anni va avanti così, poi si rende conto che alla fine dell’anno non gli rimanevano, netti, nemmeno i soldi per l’affitto.  Così smette, ma rimane senza lavoro. Gli restano sette anni per la pensione e “se avessi la qualifica di operaio forse qualcuno mi prenderebbe…ma come informatore scientifico!”, non lo dice, ma si intuisce,  non nutre molte speranze.

Poi mi spiega come le case farmaceutiche stiano tagliando il personale, allargando le zone che devono coprire, ed aumentando di conseguenza il carico di lavoro. Preferendo i giovani, che raramente dicono dei no, alle persone con più esperienza e meno disponibili a rinunciare a certi diritti acquisiti.

Qualche casa farmaceutica è addirittura arrivata a promuovere i propri farmaci con una sorta di marketing telefonico, chiamando cioè i medici al telefono, invece di visitarli con propri informatori. A discapito, ovviamente, della qualità dell’informazione sulla bontà o meno del farmaco in questione. Ma così risparmiano personale.