LA ROMAGNA: UNA DIFFERENZA DA COLMARE

Questo speciale elezioni dedicato alla Romagna nasce dalla constatazione che pur rappresentando l’Emilia e la Romagna una regione unica, in molti aspetti le realtà sono diverse.  L’Emilia è più manifatturiera e conta con un numero di imprese che eccellono, esportano e innovano, più alto della Romagna.  La prima attrae più investimenti, la seconda meno.  Questo, ma non solo, fa che i salari emiliani, quindi le future pensioni, siano più alti, le opportunità d’impiego migliori. 

Gli stessi flussi finanziari regionali, come quelli collegati ai bandi di supporto alle attività economiche, se si esclude, per ovvie ragioni, il turismo, prendono più la strada dell’Emilia che della Romagna. Non sono differenze recenti, ma se non si fa niente, cominciando dalla consapevolezza , per colmare le differenze, il rischio è che le distanze aumentino, con ricadute, per certo non positive, sull’intera società romagnola.  La recente nascita del progetto Città Romagna, promosso dalle Associazioni economiche e sociali del territorio pare prendere coscienza di questa realtà. Il passo successivo è entrare nel merito e fare proposte, per  accorciare le distanze e indicare un futuro possibile. I prossimi consiglieri regionali che verranno eletti in Romagna dovrebbero essere consapevoli di questo disallineamento  e fare squadra per cambiarlo.

Superando resistenze sempre presenti. Perché di fronte a qualche cifra non particolarmente favorevole ci sarà sempre qualcuno pronto ad innalzare la bandiera dell’economia sommersa. E’ un modo, non nuovo, per dire che in fondo le cose non sono come appaiono. Senza negare che il sommerso esista (per riciclaggio di denaro, con 208 segnalazioni ogni mille abitanti nel 2018, Rimini è secondo, in regione, solo a Parma), si dimentica che il nero non è proprio sinonimo di qualità d’impresa, efficienza e rispetto dei diritti di chi lavora. Insomma, non può essere un’attenuante, semmai il contrario.

Brevi dalla Regione

Giunto a scadenza naturale, il 26 gennaio prossimo gli elettori dell’Emilia Romagna andranno al voto per rinnovare i 50 componenti  del Consiglio regionale, di cui 5 eletti in provincia di Forlì-Cesena, 4 a Ravenna e 3 a Rimini.

L’istituzione regionale ha un organico, a fine 2018, di 3.891 persone e gestisce un bilancio  annuale di 12,1 miliardi di euro (2019), di cui 8,9 miliardi  (75%) sono spesi per il sistema sanitario regionale, 981 milione per oneri generali, come fondi e accantonamenti (8%),  845 milioni per trasporti, tutela ambientale  e assetto del territorio (7%), 572 milioni (4,7%) per servizi generali e di gestione (personale, ecc.), 532 milioni per politiche di supporto alle attività economiche (4,4%),  infine 137 milioni per la cultura (1,1%).

Come è facile dedurre, al netto della spesa sanitaria, alla Regione resta relativamente poco da spendere per altre politiche. Ma questa è una gestione che riguarda tutte le Regioni.

Nel bilancio regionale di previsione 2020 il budget resta quasi invariato, è prevista infatti una spesa di 12,2 miliardi di euro, di cui 8,4 miliardi per la sanità.  

Alla riqualificazione della Costa il prossimo bilancio destina un fondo extra di 13 milioni di euro, che sommato ai precedenti porta il totale delle risorse a 33 milioni.

I romagnoli

Presi tutti insieme, i residenti delle tre province della Romagna fanno 1,1 milioni di abitanti e rappresentano un quarto della popolazione dell’Emilia Romagna.

Due i tratti emiliano-romagnoli comuni: calo della natalità e invecchiamento. Nel periodo 2011-2018, ma la tendenza viene da molto prima, il saldo naturale, la differenza tra nascite e decessi, è negativo per circa 8 mila unità in provincia di Forlì-Cesena e 4 mila tanto a Ravenna, quanto a Rimini.  Perché non ci siano dubbi sulla tendenza alla decrescita naturale della popolazione basta sapere che in nessuno degli otto anni, e per nessuna provincia romagnola, il saldo è stato positivo.  Una tendenza che coinvolge l’intera regione, dove il saldo naturale è stato negativo, nell’identico periodo, per oltre 98 mila unità.

Ciononostante la popolazione, dal 2011 ad oggi, anziché scendere e continuata ad aumentare: di 4 mila nuovi residenti Forlì-Cesena, poco meno di 5 mila  Ravenna e di un sorprendente 17 mila  Rimini.

Aumento della popolazione reso possibile da un saldo, questa volta positivo, dell’immigrazione, interna (proveniente da altre parti d’Italia) ed esterna (da e per l’estero).  Il secondo saldo sempre maggiore del primo.  In questo modo la perdita per denatalità è stata, in Romagna, più che  compensata da 15 mila arrivi netti da altre province d’Italia e da circa 30 mila arrivi netti dall’estero.    

Sommando ai nuovi i vecchi arrivi, gli stranieri regolarmente residenti sono l’11 %  a Forlì-Cesena e Rimini, e 12 % a Ravenna.  Una presenza importante, ma nessuna “invasione” come qualcuno pretende.

Con un avvertimento: il saldo migratorio estero positivo (gli arrivi dall’estero più numerosi delle partenze per l’estero) non deve nascondere la voce emigrazione dall’Emilia Romagna.  Perché sono ben 20 mila le persone, prevalentemente giovani, che negli ultimi otto anni hanno abbandonato la Romagna (78 mila in tutta la Regione). Un paese grande quasi quanto Santarcangelo di Romagna cancellato.

Con questi numeri, all’inizio del 2019 i romagnoli iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE), ma non tutti si iscrivono, sono ben 55 mila, di cui quasi la metà riminesi, su un totale regionale di 205 mila.

Il saldo migratorio nazionale della Romagna che copre più di un terzo di quello regionale e quello estero che supera addirittura la metà, ci dice, però, anche un’altra cosa: che questo territorio mantiene una certa capacità d’attrazione, rispetto al resto della regione.

Comune, invece, all’Emilia e alla Romagna, è l’invecchiamento della popolazione, con gli ultra sessantacinquenni oramai diventati un quarto della popolazione, la parallela discesa dei residenti in età per lavorare, per fortuna controbilanciata da una crescita relativa, nell’ultimo decennio,  della fascia 0-14 anni. Grazie proprio all’immigrazione.

Economia: la Romagna ha una marcia in meno

La bontà di un sistema economico si misura dai risultati, cioè dalla capacità di creare valore, che in seguito verrà distribuito tra i protagonisti (imprese, lavoratori e stato..con le tasse).

Nel 2010 l’intera Emilia Romagna produceva un valore aggiunto (produzione meno costi intermedi) di 124 miliardi di euro, a cui le tre province della Romagna contribuivano con qualcosa in più di 30 miliardi, che fa il 24 % circa del totale.

Nel 2018 il valore aggiunto della Regione è salito a 144 miliardi di euro (+16 %) e quello della Romagna a 32 miliardi, che questa volta vale solo il 22 % circa del regionale. Il contributo della Romagna si è così ridotto di due punti percentuali.  La causa è una crescita economica della Romagna, nello stesso periodo, che è meno della metà della media  regionale (+6,5 %), ma diventa di un terzo rispetto a quella conseguita dall’Emilia senza la Romagna, che così sale al + 19 %.

Una crescita più lenta inevitabilmente si riverbera nella disponibilità economica degli abitanti. In altri termini, se la torta è più piccola, tutti ne avranno meno. Come in effetti dimostra il valore aggiunto per abitante nelle tre province della Romagna che è costantemente sotto, escluso Ferrara, alle cinque province dell’Emilia.  Una distanza che ha origini antiche, perché era così già nell’anno duemila.

Ma se nel primo decennio del secolo la forbice tra le due regioni sembrava ridursi, dopo il 2010 ha ripreso ad allargarsi, anche se di poco. Infatti, mentre nel 2010 il valore aggiunto di un romagnolo era del 10 per cento in meno di un emiliano, nel 2018  la distanza sale all’11 %. Che diventa però il 16 %, se dai calcoli escludiamo Ferrara. Vuol dire che dalla crisi, iniziata nel 2008 e ancora non risolta, non tutti hanno reagito allo stesso modo.

Per dare una idea del ritardo, con l’Emilia e qualche altra realtà avanzata, è sufficiente sapere che mentre nessuna provincia della Romagna supera la linea di 30 mila euro come valore aggiunto pro capite, quello di Bologna, capoluogo anche in questo, sfiora 37 mila, mentre Milano, al vertice in Italia, è a 49 mila euro: il 63 % più alto di una provincia romagnola.  

A questo punto è inevitabile spostare l’attenzione sui sistemi produttivi delle diverse province regionali che generano questi risultati, perché sono le imprese a produrre valore. Emergono così le differenze che pesano nel risultato finale.  Differenze che riguardano principalmente la consistenza del settore manifatturiero e la qualità dei servizi presenti, di cui anche l’industria è una richiedente.

Nelle province di Parma, Reggio Emilia e Modena, il contributo del manifatturiero al valore aggiunto provinciale, oscilla tra il 31 e il 36 %. In Romagna varia tra il 15 % di Rimini e il 22 % di Forlì-Cesena, passando per il 21 % di Ravenna.

Una ulteriore conferma della qualità diversa dei sistemi produttivi lo ritroviamo anche nel valore aggiunto per occupato: nel 2016 (ultimo dato disponibile) ruotava intorno a 70 mila euro tra Reggio Emilia, Modena e Bologna, ma scendeva a 59 mila a Rimini, ultima in regione, per risalire a 62 mila a Forlì-Cesena e 64 mila a Ravenna. Tra la prima, Modena, e l’ultima, Rimini, c’è una differenza del 20 % in meno.

Anche i salari e le pensioni sono più bassi

Se una economia produce meno valore, certo non per colpa degli occupati, è giocoforza che anche i salari siano più bassi. Così, infatti, accade. In provincia di Rimini la retribuzione media annua dei lavoratori dipendenti (al lordo dell’Irpef)  supera di poco 16 mila euro, a Forlì-Cesena 21 mila, a Ravenna 22 mila, quando a Bologna sfiora 26 mila euro e la media regionale e nazionale è rispettivamente di 24 mila e 22 mila euro (Istat, BES 2019). Vuol dire che un  lavoratore riminese guadagna abbondantemente meno della metà di un bolognese.

Retribuzione che dipende dal lavoro offerto, ma anche dalle giornate lavorative regolarmente retribuite che si riescono a fare ogni anno. Giornate che ammontano a: 214 a Rimini, 252 a Forlì-Cesena, 246 a Ravenna, 266 a Bologna, 269 a Reggio Emilia e Modena, per una media regionale di 252 giornate. Nel taglio delle giornate lavorative, il turismo, più presente in Romagna che in Emilia, fa inevitabilmente sentire la sua parte.

Ma non basta. Perché sulla Costa il lavoro è più breve e la paga anche. In un anno, chi è occupato nel turismo (alberghi e ristoranti) riminese lavora in media  per 125 giorni e prende, come paga giornaliera 57 euro, a fronte di 91 euro del manifatturiero e di 134 euro delle attività finanziarie. 

Le donne, che sono il 60 % degli occupati nel turismo, inevitabilmente finiscono per risultare le più penalizzate.

Se si lavorano meno giornate e si prende meno, si versano anche meno contributi , e così, quando arriva il momento di andare in pensione, anche queste saranno più basse.  

Non bisogna quindi sorprendersi se l’importo lordo annuo medio delle pensioni  in provincia di Rimini è di 16 mila euro, a Ravenna e Forlì-Cesena 18 mila, ma diventano 20 mila euro a Bologna, a fronte di un importo medio regionale di 18 mila euro, che non è troppo lontano dalla media nazionale.

In questo contesto pensionistico Rimini si distingue anche per avere il maggior numero di pensioni sotto i 500 euro lordi mensili, circa il 10 % del totale. Percentuale che rappresenta il dato regionale più alto, dove in media sono il 7 %.

Molta creatività, ma poca innovazione

In Romagna è attiva una impresa ogni dieci abitanti, e sono perfino più numerose, in rapporto alla popolazione, del resto della regione. Ma ovviamente non basta. Perché la produzione di valore dipende da cosa producono, come lo fanno, quanto sono innovative e aperte ai mercati internazionali, che personale impiegano e altro.  Qui le differenze sono evidenti.

In totale, a fine 2018, le imprese attive in Romagna (106 mila) rappresentano il 26 % del dato regionale (403 mila). Ma se quelle manifatturiere sono sotto rappresentate, 21 % del totale settoriale regionale, ci sono altri settori di attività che, al contrario, sono sovra rappresentati: gli alberghi e i ristoranti della Romagna coprono il 34 % del settore a livello emilianoromagnolo, le attività creative e artistiche addirittura ne rappresentano il 41 %, le attività immobiliare e l’agricoltura il 28 % ciascuna.   

Ed è proprio in questa sotto e sovra rappresentanza dove risiedono i punti deboli della Romagna.

Nella manifattura emiliano romagnola il valore aggiunto per addetto è di 72 mila euro, nei servizi di  alloggio e ristorazione 22 mila, senza troppa differenza da Piacenza a Rimini (Istat, Rapporto competitività 2019). Vuol dire che tre addetti nel turismo non producono quanto un addetto della  manifattura.

Anche la tipologia di turismo, quello romagnolo prevalentemente stagionale e balneare, fa la sua parte, se a Firenze e Venezia lo stesso valore aggiunto per addetto nel turismo, in queste città  di tipo urbano e culturale, sale a 30 mila e 36 mila euro.

Ora, in una economia dove il settore di attività che produce più valore è meno presente, mentre abbonda quello meno produttivo, è evidente che alla fine i conti sono al ribasso.

Ci vorrebbe uno sforzo di compensazione, che puntasse, nel medio periodo, ad un riequilibrio delle attività, puntando, in Romagna, ad attrarre e stimolare imprese ad alto valore aggiunto. Ma al momento non si intravvedono misure che vadano in questa direzione.

Con il rischio che la forbice si allarghi. Perché chi è più competitivo, e dispone di maggiori risorse, investe di più in innovazione, ricerca, mercati esteri, ecc. Crea, cioè, un ambiente più competitivo e attrattivo, anche per nuovi investimenti.  Ed è inutile negarlo, acquista maggiore peso politico.

Uno studio CISE del 2014, della Camera di Commercio della Romagna, dedicato all’innovazione in Emilia Romagna è arrivato alla conclusione che una impresa innovativa, senza considerare le altre, a Rimini aveva investito in innovazione 43 mila euro, a fronte di 114 mila euro a livello regionale.

Più di recente, l’Osservatorio innovazione Emilia Romagna (#InnoER) del 2018, Focus Forlì-Cesena e Rimini, scrive che “La Romagna rispetto alla media regionale ha una quota di imprese tardive (che non hanno effettuato investimenti negli ultimi 3 anni) più alta di 6 punti percentuali (37% Forlì-Cesena, 36% Rimini), in linea con la minor incidenza di imprese leader (più bassa della media regionale del 6%) in particolare per la provincia di Rimini (25% Forlì-Cesena, 20% Rimini)”.

Parma ha una propensione alla brevettazione per milione di abitanti  pari a 179,  Reggio Emilia 136,  Modena 155 e Bologna 200, ma Ravenna 71, Rimini 48 e Forlì-Cesena 40. 

Non parliamo poi dell’incidenza dei brevetti nei settori di alta tecnologia, dove solo Forlì-Cesena fa la sua parte, uno ogni dieci, che scende però a uno su venti a Ravenna e zero a Rimini (Istat, BES 2018).

La stessa distribuzione dei Laboratori di ricerca industriale della rete dei Tecnopoli regionali fotografa questo squilibrio: perché dei 46 esistenti, di cui ben 20 solo a Bologna, dove molti sono legati all’Università, solo 9 operano in Romagna (2 a Rimini, 3 a Forlì-Cesena e 4 a Ravenna).

Per ultimo, i dati sulla Strategia regionale di specializzazione intelligente, programma sostenuto dalla Commissione Europea con i fondi strutturali 2014-2020, non lasciano adito a troppi dubbi sullo stato delle cose: non c’è indicatore, a parte le nuove imprese e i ricercatori coinvolti,  dove la Romagna abbia una presenza che minimamente si avvicina al peso relativo della sua economia e delle sue imprese sul totale regionale (24 e 26 %). 

Le ricadute di questo deficit di innovazione sono diverse: da un export con meno prodotti di alta tecnologia, ad una domanda di lavoro delle imprese di minor profilo professionale.    

Dato questo disequilibrio non può allora essere semplicemente un caso se, per citare alcuni esempi, la Toyota abbia deciso di aprire il suo centro dedicato alla formazione, ricerca e logistica sotto le due torri, che la Philip Morris il suo nuovo stabilimento, con 600 assunzioni, lo abbia fatto a Crespellano, vicino Bologna.  Che la californiana Eon Reality, attiva nella realtà virtuale e aumentata e nell’intelligenza artificiale, con un  investimento da 24 milioni di euro, di cui 6,3 milioni di contributo regionale, 160 assunzioni, 138 con laurea, abbia scelto di aprire il suo Centro a Casalecchio di Reno e che, infine, il nuovo Centro Emilia-Romagna Data Valley, una piattaforma internazionale in materia di Big Data, Intelligenza artificiale, Meteorologia e cambiamento climatico, abbia sede nel Tecnopolo di Bologna.