La laurea e il lavoro: la scelta dell’indirizzo “migliore”

Se non lo hanno ancora fatto, molti giovani, da poco conseguito il diploma, staranno pensando di iscriversi all’Università e saranno alle prese con la scelta della facoltà.  Allora le domande più frequenti saranno: Che indirizzo scegliere ?   Dove sarà più facile trovare lavoro ?  

Certo la situazione economica di questi mesi non facilita l’ottimismo, anche se è da prima della crisi che le indagini Unioncamere (Excelsior) sui fabbisogni occupazionali delle imprese italiane (che non comprendono il settore della Pubblica Amministrazione) segnalano la  sottoutilizzazione di personale con formazione universitaria. Nell’ultimo Rapporto la domanda di assunzione dei laureati riguarda 12 ogni 100 muovi ingressi. Pochi, se confrontati col resto del mondo sviluppato (le previsioni più recenti elaborate per il decennio 2008-2018, stimano il fabbisogno di laureati negli Usa pari al 31,4% del complesso delle nuove assunzioni),  ma a Rimini sono ancora meno: poco più di  8 su 100 (erano 9 l’anno scorso).

Pensando però che per l’ingresso nel mondo del lavoro ci sarà da attendere dai tre ai cinque anni, a seconda se si sceglie la laurea breve o la specialistica, c’è la speranza che le cose possano migliorare e le opportunità essere più abbondanti.   In ogni caso qualche consiglio,  fornito da uno che se ne intende come il Direttore della LUISS di Roma  Pier Luigi Celli, originario di Verucchio, si può dare:  evitare le iper specializzazioni, perché il mondo cambia in fretta è c’è il rischio di non sapere come ricollocarsi se quel settore va in crisi;  imparare bene almeno una lingua straniera,  per avere più opportunità, anche cambiando paese; abituarsi a lavorare in squadra, con altre competenze, perché questa sarà la condizione di lavoro più frequente.

 Cosa fanno i laureati del 2008 e quelli precedenti, ad un anno e più dalla laurea ?  La risposta la cerchiamo nel Rapporto 2009 di Alma Laurea  che ogni anno indaga sul destino occupazionale dei laureati di 49 università italiane.  

 Rispetto alla precedente rilevazione, tutti i tipi di laurea esaminati hanno manifestato bruschi segnali di frenata della capacità di essere assorbiti dal mercato del lavoro: tra i laureati di

primo livello il tasso di occupazione è sceso di quasi 7 punti percentuali (62% rispetto al 69% dell’anno scorso), tra i colleghi specialistici la contrazione registrata è di oltre 7 punti (45,5%, solo un anno fa, era del 53%), mentre tra gli specialistici a ciclo unico è di oltre 5 punti percentuali (37%; il precedente tasso di occupazione era del 43%).

 L’analisi del tasso di disoccupazione confermano le difficoltà del momento. I laureati di primo livello presentano una quota di disoccupati pari al 22%, simile a quella rilevata per i laureati di secondo livello (21%). Gli specialistici a ciclo unico, frequentemente impegnati in attività formative retribuite, mostrano un tasso di disoccupazione significativamente più contenuto (15%);

Rispetto alla precedente rilevazione tutte le tipologie esaminate hanno registrato un incremento significativo della quota di disoccupati: circa 5 punti percentuali tra i triennali, 7 tra i magistrali, 6 tra gli specialistici a ciclo unico.

 Il guadagno, per gli occupati, ad un anno  supera complessivamente i 1.050 euro netti mensili: in termini nominali 1.057 per gli specialistici, 1.109 per il primo livello, 1.110 per gli specialistici a ciclo unico. Rispetto alla precedente rilevazione, le retribuzioni nominali risultano in calo per tutte le tipologie di lauree considerate: la contrazione oscilla dal 2% tra i laureati di primo livello, al 3% tra i colleghi a ciclo unico fino a lievitare al 5% tra quelli specialistici. Se si considera l’inflazione il calo è ancora più marcato.

 Allora non conviene studiare ?  Non è così. Infatti, nonostante le difficoltà ,  con il trascorrere del tempo dal conseguimento del titolo la capacità di assorbimento da parte del mercato del lavoro resta ancora buona: tra uno e cinque anni dalla laurea, ad esempio, i laureati del 2004 (gli ultimi analizzati) mostrano un incremento del tasso di occupazione di circa 28 punti percentuali (dal 54% al già citato 82%).  Ed  il Centro studi degli artigiani (CGIA) di Mestre ha di recente smentito che tra i 3,7 milioni di occupati con contratti precari la maggioranza fosse costituita  proprio da neo laureati: sono solo il 15% (meno di 600 mila).

 Resta invece confermato che al crescere del livello di istruzione, cresce anche l’occupabilità. I laureati infatti sono in grado di reagire meglio ai mutamenti del mercato del lavoro, perché dispongono di

strumenti culturali e professionali più adeguati. Nell’intero arco della vita lavorativa (fino a 64 anni), la laurea risulta premiante: chi è in possesso di un titolo di studio universitario presenta un tasso di occupazione di oltre 10 punti percentuali maggiore di chi ha conseguito un diploma di scuola secondaria superiore (78,5 contro 67%).

 Anche il guadagno premia i titoli di studio superiori: misurato per la classe di età 25-64 anni, è più elevato del 55% rispetto a quello percepito dai diplomati di scuola secondaria superiore. Un differenziale retributivo tutto sommato in linea con quanto rilevato in Germania (+62%), Regno Unito (+57%) e Francia (+50%).

BOX

 L’istruzione degli altri

 Anche se il recupero compiuto negli ultimi tempi è stato consistente, ancor oggi il confronto con i Paesi più avanzati ci vede in ritardo: 19 laureati su cento di età 25-34 contro la media dei Paesi OECD pari a 34. È un ritardo dalle radici antiche e profonde: nella popolazione di età 55-64 sono

laureati 9 italiani su cento, meno della metà di quanti ne risultano nei Paesi OECD e che riguarda ovviamente, sia pure su valori diversi, anche imprenditori e dirigenti, pubblici e privati.

 L’Italia destina alla spesa pubblica nel campo dell’istruzione universitaria solo lo 0,80% del PIL contro l’1,1 del Regno Unito, l’1,11 della Germania, l’1,19 della Francia, l’1,45 degli Stati Uniti; senza considerare le risorse pubbliche, tra le più elevate in assoluto, spese su questo terreno dai Paesi scandinavi (tutti prossimi o superiori al 2% del PIL). Si è già visto che fra i 27 paesi dell’Unione Europea, solo in Bulgaria il finanziamento pubblico in istruzione superiore è inferiore a quello italiano.