La CIG che ritarda i pagamenti

di Gabriele Rodriguez

Ad inizio anno la Corte dei Conti ha di nuovo denunciato gravi livelli di corruzione nella gestione della cosa pubblica, una malattia storica ma ancora attuale nel Paese che ha vissuto tangentopoli – dove non basta vietare, bisogna vietare “severamente”. Perciò le imprese che hanno rapporti con la pubblica amministrazione non hanno vita facile: per garantire  regolarità, trasparenza e libera concorrenza nelle commesse pubbliche, il legislatore ha imposto una serie di regole complesse e non sempre coerenti, i cui effetti collaterali a volte rischiano di essere più pesanti di quelli virtuosi: in una parola, “burocrazia”.

L’ultima nata è la legge n. 136 del 2010, “Piano straordinario contro le mafie (…)”, che mira a controllare il flusso del denaro speso dall’ente pubblico, segnandolo attraverso un codice identificativo –  il CIG, Codice Identificativo di Gara – che come una sorta di “spia” dovrebbe consentire di tracciarne tutti i passaggi e stabilire in quali tasche (private) va a finire. L’intento dichiarato è impedire che entrino in gioco imprese collegate o colluse con la criminalità organizzata, che operano in modo irregolare ed anticoncorrenziale.

In breve, la legge stabilisce che ogni movimento finanziario che coinvolge la pubblica amministrazione – sia per l’esecuzione di lavori che per l’acquisto di forniture e servizi – sia appunto sempre segnato tramite il CIG, e che i relativi pagamenti avvengano con bonifico bancario o postale su un conto corrente dedicato (cioè con strumenti che ne consentano la tracciabilità).

Se immaginiamo tutti i soggetti coinvolti in un grosso appalto – a partire ad es. dal Comune che commissiona un lavoro, poi la ditta che si aggiudica il contratto, fino alle aziende cui questa si rivolge in sub-appalto (per noleggiare i camion, per acquistare il materiale, ecc.) – è facile comprendere la ratio della norma, poiché è proprio nei vari passaggi di questa lunga catena, specie negli ultimi, che si inseriscono le imprese controllate dalle organizzazioni criminali.

Attenzione però: la legge riguarda, come detto, qualsiasi movimento finanziario che interessa la P.A., anche il semplice acquisto di beni e servizi. Soprattutto, si applica indipendentemente dall’importo della spesa, ne restano escluse solo le spese correnti inferiori ai 1.500 €.

Vediamo come funziona, e capiremo le difficoltà.

In concreto, l’ente pubblico per qualsiasi acquisto o spesa deve stipulare con il fornitore un contratto in cui va inserito, pena la nullità, il richiamo alla legge n. 136/2010. Richiede poi per via telematica  il CIG, che va riportato sia sulle fatture del fornitore che sui bonifici del committente.  L’impresa dal canto suo, oltre ad apporre il CIG sulle fatture, deve indicare al committente pubblico il conto corrente bancario o postale dedicato alla commessa (può anche essere un conto già esistente) e i dati delle persone che possono operare sul conto. Questo vale per tutto il percorso della commessa, per cui, se entrano in gioco sub fornitori o sub appaltatori, l’impresa fornitrice a sua volta deve inserire, nei contratti con i propri fornitori, la clausola sulla tracciabilità dei flussi (pena la nullità del contratto), oltre a riportare il CIG in ogni bonifico e fattura, e l’amministrazione deve farsi inviare copia di questi contratti.

Alla richiesta del CIG, inoltre, in caso di importi superiori a 40.000 € scatta l’obbligo del pagamento della “tassa di gara”, sia per l’amministrazione pubblica che per il fornitore. Si va da un minimo di 30 ad un massimo di  800 € per l’amministrazione, mentre per le aziende le cifre sono più basse.

Tutti questi complicati adempimenti si vanno a sommare a quelli già previsti per garantire  l’affidabilità dei fornitori della P.A., che devono produrre la certificazione antimafia, il certificato sui carichi penali pendenti, e soprattutto il documento sulla regolarità contributiva dei dipendenti (DURC).

Non è difficile comprendere insomma come la legge, al di là degli intenti, abbia complicato le cose. All’indomani dell’entrata in vigore,  nel settembre 2010, CNA e Confartigianato locali chiedevano chiarimenti, segnalando in particolare che “la scarsa chiarezza sull’applicazione della normativa rischia di creare ulteriori ritardi dei pagamenti”.  Secondo l’ultimo rapporto dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, nel 2009 in Italia i giorni di attesa erano già il doppio della media dell’UE: 128 giorni contro 65, (con punte di 664), ed i nuovi obblighi di tracciabilità hanno ancora di più differito i tempi, nei primi mesi. Ora dal Comune di Rimini fanno sapere di essere “a regime” coi nuovi adempimenti, ma il carico di burocrazia è aumentato in maniera notevole, specialmente per le imprese, anche per importi di spesa così bassi che non richiederebbero alcuna particolare vigilanza. Quando poi vediamo che la bozza governativa del “decreto sviluppo 2011” sembra andare in tutt’altra direzione, consentendo l’assegnazione diretta senza gara d’appalto di opere pubbliche fino a un milione di euro, viene da chiedersi se non servirebbero, anzitutto, coerenza e buonsenso.