Il lavoro e la flessibilità

di Alessandra Leardini

Intervista a Michele Tiraboschi, esperto in diritto del lavoro 

La disoccupazione, in particolar modo giovanile, la distinzione tra flessibilità e precarietà e i primi effetti della Riforme Fornero saranno questi alcuni dei temi che verranno trattati dal Prof. Michele Tiraboschi, relatore di spicco dell’edizione 2012-2013 del Rapporto Economico a cura della Camera di Commercio di Rimini e della Fondazione Cassa di Risparmio. Ordinario di Diritto del lavoro a Modena e Reggio Emilia e direttore del Centro Studi Internazionali e Comparati Marco Biagi, Tiraboschi è stato uno stretto collaboratore del giuslavorista ucciso dalle Nuove Brigate Rosse nel marzo 2002 ed oggi è una delle voci più autorevoli in tema di diritto del lavoro e di relazioni industriali. Su questi temi gli abbiamo rivolto qualche domanda.

In Italia, ma non solo, è stata a lungo combattuta la battaglia della flessibilità, ritenendo che questa fosse la chiave di volta per creare maggiore impiego. Oggi, anche a Rimini, solo un assunto su dieci avrà un contratto a tempo indeterminato mentre sono cresciuti a dismisura i lavori a chiamata (intermittenti) che riguardano un avviamento su quattro. Non sarà che se l’economia non riparte, il lavoro continuerà ad essere considerato un bene scarso?

“E’ certamente vero che i nuovi assunti sono prevalentemente lavoratori temporanei o flessibili. E’ altrettanto vero, tuttavia, che nel medio periodo questi nuovi rapporti si convertono in contratti stabili. Un conto sono infatti i flussi occupazionali. Altra cosa è il totale della forza lavoro che, in Italia, è ancora prevalentemente stabile. Nel manifatturiero, per esempio, i rapporti flessibili sono meno del 10 per cento. La battaglia sulla flessibilità è stata importante e non va rinnegata posto che nel nostro Paese i tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, sono altissimi e che il lavoro nero dilaga. Quando nel 2001 Marco Biagi spiegò la sua riforma, chiarì subito che un rapporto flessibile è sempre meglio della inattività o del lavoro sommerso. A livello culturale questa affermazione va difesa e va accompagnata con l’impegno a incanalare i rapporti temporanei lungo percorsi di stabilità occupazionale”.

La nuova regolamentazione del lavoro introdotta con la Legge Fornero, stando ai primi risultati, pare avere determinato un ridimensionamento del ricorso al contratto di lavoro a chiamata, ma anche uno spostamento di rilievo in direzione di altre tipologie di lavoro, in particolare i rapporti part-time sia a tempo indeterminato che determinato, mentre non risultano significativi gli spostamenti verso l’apprendistato e verso il contratto a progetto. Quali sono le sue valutazioni di questa legge?

“Stando ai risultati la riforma Fornero, nel negare l’assunto di Marco Biagi, ha finito con il penalizzare l’occupazione soprattutto dei giovani ai quali sono state limitate le possibilità di accesso al mercato del lavoro secondo contratti certamente flessibili, ma regolari e alla luce del sole. Che la legge Fornero sia stato un errore lo dicono ora tutti, non solo le imprese ma anche il sindacato che denuncia un irrigidimento intollerabile del mercato del lavoro. Il vero errore di questa legge è la sua matrice dirigista e centralista che nega il pluralismo e il dinamismo dei moderni modi di lavorare e produrre. Per sostenere l’occupazione regolare servono meno leggi e meno burocrazia lavorando semmai sui meccanismi di incontro tra domanda e l’offerta di lavoro a partire dalla scuola e dalla università”.

Un’altra conseguenza della Riforma Fornero sembra essere l’impossibilità per un laureato di fare un stage in azienda a un anno dalla laurea. Cosa pensa a questo proposito?

“Il nostro è un Paese che costruisce le leggi partendo dagli abusi, sul presupposto che l’impresa, per definizione, non abbia altra inclinazione che quella di sfruttare il lavoratore. Non è così. Esistono certamente abusi che però si combattono incrementando le sanzioni, non attraverso divieti e restrizioni che, alla fine, finiscono con il penalizzare tutti, non solo le imprese ma anche i tanti giovani a cui viene negato un importante strumento di conoscenza del mondo del lavoro. Gli stage sono importanti, perché aiutano i processi di integrazione tra scuola e lavoro, e devono essere valutati non in chiave formalistica ma in ragione della loro utilità nel percorso di crescita umana e professionale dei giovani”.

Lei ha già dichiarato in precedenza ad altri organi di stampa che il 2013 sarà peggiore del 2012 per l’economia italiana e per il lavoro. Per quale motivo?

“Lo dicono molti studi nazionali e internazionali. Per essere pratici è tuttavia sufficiente leggere i dati sull’andamento degli ammortizzatori sociali e della cassa integrazione in particolare. Associazioni datoriali e sindacati, che sono a contatto con la realtà del mondo del lavoro, lo percepiscono chiaramente meno i politici ma è normale visto che siamo in piena campagna elettorale”.

Infine, quali soluzioni propone per invertire la rotta?

“Nessuna legge potrà mai creare lavoro. Il lavoro lo creano semmai le imprese che devono essere sostenute nella loro naturale propensione ad assumere e investire, eliminando vincoli burocratici e riducendo il costo del lavoro. Altro aspetto fondamentale è il tema della integrazione scuola-università-lavoro. Non è da Paese moderno la circostanza che i giovani non trovino lavoro e che, al tempo stesso, le imprese non trovino lavoratori con le competenze e le specializzazioni di cui hanno bisogno. Occorre assolutamente superare il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro e anche riscoprire il lavoro manuale e artigianale che ha fatto la ricchezza del nostro Paese”.