Il lavoro e gli altri fattori (dimenticati) dello sviluppo

Strano confronto quello sulla crescita. Sembra che tutto debba dipendere dal fattore lavoro, quando è noto che nella produzione di beni e servizi esistono anche gli investimenti, la ricerca, le infrastrutture, compreso quelle immateriali, il credito e per ultimo, ma non meno importante, la capacità di gestire le imprese da parte degli imprenditori. Come mai allora, se i fattori della produzione sono tanti, infatti si parla di produttività totale dei fattori, il dibattito si concentra prevalentemente sul lavoro ?  

In verità sembra di rivedere un film già visto. Infatti molti ricorderanno che ci fu un tempo, non troppo remoto, precisamente il 1997 quando fu approvata la legge Treu “Norme in materia di promozione dell’occupazione”, cui è seguita, nel 2003,  la legge Biagi “..in materia di occupazione e mercato del lavoro”, in cui tutto sembrava dipendere dalla flessibilità del lavoro, ritenendo in molti che un mercato  troppo rigido, soprattutto in materia di licenziamenti, fosse la causa di tutti i mali.   Così, con Governi diversi,  siamo passati ad una cinquantina di forme di assunzione, in stragrande maggioranza temporanee ma soprattutto precarie, quando non apertamente in nero. Un eccesso di flessibilità  che ha fatto si crescere l’occupazione nel breve periodo, almeno fino allo scoppio della crisi del 2008, ma non ha prodotto nessun recupero di produttività e competitività del sistema Italia.  Produttività e competitività che in Italia sono ferme da un quindicennio, mentre cresceva in Germania, Francia e negli altri Paesi europei.    Nell’ultimo decennio, il costo del lavoro per unità di prodotto (misura il peso della componente manodopera in una macchina, un frigorifero, ecc.) è cresciuto del 24 per cento in Italia, ma è addirittura sceso in Germania (dove i dipendenti guadagnano di più, perchè è  maggiore la produttività, cioè il valore che ciascuno di loro crea).   Gli imprenditori italiani, fatte come sempre le debite eccezioni, non investono più e continuano ad andare avanti con macchinari vecchi, quando l’innovazione è l’unico modo per conquistare nuovi mercati.  Il lavoro certamente è importante, ma pensare, e far credere, che sia il solo a far recuperare un sentiero di crescita, è economicamente infondato ed intellettualmente poco serio.

Uno studio, del novembre 2011, della Banca d’Italia sull’economia del Nord Est, la parte più dinamica dell’Italia,  offre molti spunti su cui riflettere. Scrive il rapporto:

“…..tra il 2000 e il 2007 il PIL pro capite del Nord Est è rimasto pressoché fermo ..ed è stata l’unica tra le regioni (europee) di confronto a registrare una dinamica della produttività negativa…La contrazione della produttività del lavoro è stata più sensibile in Trentino Alto Adige e in Emilia Romagna, a fronte di una maggiore tenuta di Veneto e Friuli Venezia Giulia”.

 Prosegue

 Se negli anni novanta il Nord Est aveva mantenuto il suo buon posizionamento nella graduatoria europea, nel 2006 il Nord Est si assestava al 23° posto nella graduatoria del reddito pro capite, valutato a parità di potere d’acquisto, delle macroaree dell’Unione europea a 27 membri, in discesa dal 10° posto del 2001. Nello stesso periodo, le regioni più sviluppate della Germania (Assia, Baden-Württemberg,Baviera) mantenevano la loro posizione nella graduatoria europea”.

 Ai lavoratori tedeschi non mancano le tutele, i sindacati sono forti e rappresentativi, i loro salari sono circa il doppio di quelli italiani, la disoccupazione della Germania è al minimo, per i grandi come per i giovani, e questo senza perdere capacità di competere e vendere nel mondo.  Come mai ? 

Per prima cosa la Germania si è dotata di una politica industriale, che l’Italia non ha e continua ad ignorare, anche col Governo dei “tecnici”, e una “Strategia per l’Alta Tecnologia” che ha individuato cinque settori chiave su cui concentrare sforzi e risorse: energia, sanità, mobilità, sicurezza e comunicazione.  Questo senza abbandonare i tradizionali punti di forza dell’economia tedesca, come l’industria dell’auto (che non a caso aumenta le vendite, mentre la Fiat perde nonostante il basso, in Italia, costo del lavoro).

Nel Nord Est invece, prosegue lo studio citato, non si riesce nemmeno a garantire una buona diffusione delle nuove tecnologie per “la limitata disponibilità di capitale umano”.  In sostanza, per carenza di risorse umane.  Un bel paradosso, in un paese pieno di disoccupati.

Ma non basta perché “Fra i fattori che più direttamente influenzano il dinamismo di un’azienda e la sua propensione a innovare nelle strategie vi sono (anche) quelli manageriali … a loro volta strettamente dipendenti dalle strutture di governance (cioè dalla capacità di gestire l’azienda)”.

Poi c’è la ricerca, un altro fattore decisivo per produrre beni e servizi innovativi, come per creare un’offerta di lavoro di qualità. In merito il Rapporto della Banca d’Italia è piuttosto esplicito:” Nel 1995, solo lo 0,7 per cento del PIL del Nord Est era investito in attività di R&S, un valore marcatamente inferiore a quello di Baviera e Rhône-Alpes, simile a quello della Cataluña e inferiore alla media nazionale. Anche la composizione della spesa era piuttosto peculiare: meno della metà della spesa era fatta da imprese private, mentre nel resto d’Europa tale percentuale andava dal 60 per cento della Cataluña al 77 per cento della Baviera. Tutte le regioni di interesse (ad eccezione del Rhône-Alpes), inoltre, avevano una quota di PIL investito in R&S superiore alle rispettive medie nazionali, mentre nel Nord Est accadeva l’opposto. Nel periodo tra il 1995 e il 2005, la posizione relativa del Nord Est è ulteriormente peggiorata”.

Se il Nord Est spende poco in ricerca, non va meglio all’Italia che investe in R&S appena l’1,26 per cento del Pil, a fronte del 3,9 per cento della Finlandia, del 3,6 della Svezia, del 2,7 della Germania e del 2,2 per cento della Francia (2009).

In sintesi, per recuperare la crescita perduta sono diversi  i fattori su cui intervenire,  tra questi anche il lavoro, ma illudere e illudersi che sia l’unico aprirà la strada ad altre pesanti delusioni. E soprattutto, come già avvenuto, non porterà nessun recupero di produttività e di sviluppo. 

Aggiornamento del 30 marzo 2012

Si racconta che senza l’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori (l’articolo che mette una serie di restrizioni ai licenziamenti) nessuno straniero verrà ad investire in Italia: non è così. Parmalat, dopo essere stata risanata, e la casa di moda Bulgari sono entrambi state comprate, tra il 2009 e 2010, da società francesi; la De Tomaso, che fabbrica auto sportive, è finita nella mani del gruppo cinese Hotyyork Investment; all’inizio del 2012, un altro gruppo cinese, lo Shandong Heavy Industry ha comprato il 75% della Ferretti, gruppo di Forlì che fabbrica imbarcazioni di lusso; a dicembre 2011, il gruppo Sud Coreano Eland World ha acquistato il 49% di Coccinelle, casa di moda (The Economist del 17 marzo 2012).