Il caso Rovereta-Petroltecnica e la competitività dell’Italia

Un amico attivo nel settore immobiliare mi riferiva, poco tempo fa, di un noto e importante hotel di Riccione che finalmente aveva trovato un compratore, ma quando sono andati a vedere le carte hanno scoperto che diverse parti, anche importanti, erano abusive o comunque non in regola.  Chiaramente chi investe vuol avere certezze, sapere cosa sta comprando e non si può fidare delle promesse, della proprietà  o dell’Amministrazione,  che tutto verrà sistemato in seguito.

Una situazione che fa il paio con l’Ordinanza del Consiglio di Stato che, sospendendo, in attesa della sentenza del TAR (Tribunale Amministrativo Regionale)  l’ordinanza del Comune di Coriano che intimava  di fatto la chiusura degli uffici dell’azienda Rovereta, di proprietà del Gruppo Petroltecnica,  per presunte difformità edilizie, secondo la proprietà  riferite alla destinazione d’uso più che ad irregolarità strutturali,  parla di “quadro estremamente complesso con riferimento alla attuale legittimità dei titoli edilizi che si sono affastellati nel corso del tempo, che impone una approfondita istruttoria in sede di merito”.

In attesa, utilizzando anche il buon senso, il Consiglio di Stato  ha quindi sospeso il drastico provvedimento del Comune e ridato agibilità all’azienda, che dopo cinque mesi di fermo rischiava di chiudere, mandando a casa una quarantina di dipendenti, con potenziali ricadute negative sugli altri trecento del Gruppo.

Ma il fermo chiesto dal Comune di Coriano è solo l’ultimo provvedimento in ordine di tempo, da parte di una Amministrazione tra l’alto al secondo mandato. Perché il primo risale al 19 febbraio 2019, questa volta emesso dal Gip del Tribunale di Rimini, su richiesta della Procura, dove si ordina il sequestro preventivo dell’intera area industriale, dedicata allo stoccaggio e ripulitura dei terreni inquinati, per alcune  irregolarità riscontrate nella gestione del sito. Irregolarità minori che in nessun modo costituivano un pericolo né per la vita di chi ci lavora, né per l’ambiente circostante.

Un sequestro che ha comportato un primo blocco delle attività, che per  un’azienda di respiro  nazionale e internazionale, con diversi brevetti al suo attivo, non è un provvedimento indolore.  

Provvedimento probabilmente eccessivo, se dopo appena 10 giorni, il 28 febbraio, lo stesso Gip ne ordina il dissequestro, con l’obbligo di adempiere, entro 20 giorni, ad una serie di prescrizioni.

Che l’Azienda prontamente adempie, salvo ricevere, a lavori ultimati,  un nuovo provvedimento di sequestro, tuttora non risolto.

Ora, mettetevi  nei panni di un investitore, magari estero,  che deve decidere dove spendere i propri denari. Scegliereste l’Italia dove non potete essere sicuri né dello stato degli immobili che comprate, né del regolare svolgimento delle attività di una impresa,  perché le leggi sono così complesse e “affastellate nel tempo” che in qualsiasi momento vi può cadere, da una Procura, da un Comune, o da chissà quale ente, una tegola in testa ?  Sicuramente ci penserete più volte.

Infatti è quello che accade. Perché l’Italia, secondo l’ultimo Doing Business (fare impresa)  2019 della Banca Mondiale, è al 51mo posto nella classifica di 190 paesi  per la facilità di fare impresa. Classifica che vede in testa Nuova Zelanda e Singapore.  Perché l’Italia è così in basso ? Perché per ottenere un permesso per costruire ci vogliono  227 giorni, contro  i 126  giorni della Germania, per un allaccio di energia elettrica 82 giorni, a fronte dei 28 dei tedeschi,  per ottenere da un Tribunale l’esecuzione di un contratto ben  1.120 giorni e per incassare un insoluto 1,8 anni, contro rispettivamente 499 giorni e 1,2 anni, sempre della Germania.  Paese che non a caso, nella stessa classifica, è 24mo.  Ma è evidente che le distanze dai primi in classifica sono ancora più imbarazzanti.

Purtroppo la situazione non sembra migliorare, se solo l’anno precedente l’Italia occupava il 46mo posto.  Vuol dire che in un anno è tornata indietro di cinque posizioni. Non proprio un successo.

Resta molto da fare in più direzioni.  Anche a Rimini, dove i 1.800 disoccupati che hanno ricevuto il reddito di cittadinanza attendono adesso un lavoro. Lavoro che solo buone imprese possono creare.  In un quadro di certezze che al momento sembrano mancare e fare impresa è realmente un’impresa.