Export manager: un lavoro che guarda al futuro

di Alessandra Leardini

Per le imprese può essere un’occasione per mettere le ali e spingersi con più grinta alla conquista dei mercati esteri. Per molti giovani laureati in Lingue o Economia può diventare un percorso promettente in cui specializzarsi. L’export management, ossia la gestione dei rapporti con i mercati esteri, è da entrambi i punti di vista una strada da seguire. Complice la crisi del mercato italiano, l’internazionalizzazione è ormai più una necessità che una scelta per tante imprese del territorio. Dal 2011 ad oggi, in provincia, in diciassette hanno aperto le porte ad altrettanti giovani laureandi e laureati grazie al progetto “Temporary Export Manager” promosso dalla Camera di Commercio. Undici di questi sono stati confermati in azienda.
Ma di che cosa si occupa, più precisamente, un export manager? Qual è il percorso formativo più idoneo per chi vuole intraprendere questo mestiere?


Valentina Valpiani
, 28 anni, ricopre questo ruolo per ES Italia, azienda riccionese specializzata nella produzione e distribuzione di integratori sport professionali dal marchio “EthicSport”. Valentina però non si occupa solo di export, che attualmente occupa il 7% della produzione, ma anche di marketing e comunicazione. Una figura “jolly” insomma.

Valentina, qual è il tuo percorso?
“Sono laureata alla triennale della Scuola superiore interpreti e traduttori di Forlì, quindi ho fatto la specialistica in Lingue e comunicazione nell’impresa a Modena, per approfondire i settori dell’economia, organizzazione aziendale e diritto. La formazione accademica è ancora molto teorica e poco pratica, per questo ho deciso di partecipare al progetto della Camera di commercio. Ho saputo di questa possibilità durante il secondo anno della specialistica, ho iniziato a fare il tirocinio e poi sono stata assunta. Ora sono al mio terzo anno in ES Italia”.
Quali lingue occorre conoscere per fare il tuo lavoro?
“Io parlo inglese, francese e russo, ma utilizzo al 90% l’inglese. Ma non basta conoscere le lingue. Servono nozioni di marketing e comunicazione, sia classica che web”.
Con quali paesi ti interfacci maggiormente?
“Lavoriamo con Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Estonia e ultimamente con la Grecia. In più stiamo esplorando la Spagna e la Germania e abbiamo distributori in Sudamerica, Costa Rica in particolare”.
Da dove sei partita?
“Per prima cosa ho cercato di conoscere bene i prodotti dell’azienda, ho cercato quindi distributori o persone che fossero interessate a distribuirli nei nostri paesi-target. Ho sviluppato i contatti, ho cercato di espandere la nostra presenza nei paesi europei. Parallelamente seguo anche la comunicazione dell’azienda”.
Quali sono i punti di forza dei vostri prodotti all’estero e quali, invece, gli scogli da affrontare?
“Ci scontriamo con mercati saturi e una concorrenza molto agguerrita con colossi che hanno una grande forza economica, operano azioni di marketing pesanti e contratti spesso in esclusiva. Per gli integratori alimentari poi ci sono altri problemi: la data di scadenza del prodotto e una normativa che si evolve molto velocemente. Ogni paese ha le sue norme relative agli ingredienti, alle etichettature e al packaging. Ma il nostro punto di forza è un’altissima qualità del prodotto. A differenza di altri marchi effettuiamo test molto rigorosi sui nostri integratori che non a caso vengono scelti volontariamente (non con accordi pubblicitari) anche da atleti olimpici”.
C’è una curiosità che ti ha colpito nel rapportarti con altri paesi?
“In Svizzera abbiamo dovuto rinunciare a distribuire dei nostri integratori perché in quel paese è vietato un ingrediente, l’eleuterococco, un estratto di una pianta che in realtà è assolutamente innocuo. Fa strano che in paesi molto più distanti come quelli del Sudamerica, dove tutto sembrerebbe più complicato, non ci siano problemi con questo ingrediente e in una nazione molto più vicina a noi, sì”.

Valdemar Lancerotto è stato il primo giovane ad essere inserito in un’azienda riminese, ilColorificio MP di Rimini, grazie al progetto “Temporary Export Manager”. Confermato nell’azienda, specializzata in bioedilizia, si occupa dei rapporti con Medio oriente, nord Africa, Asia e nord America.

Qual è il percorso formativo consigliabile?
“Non c’è un percorso formativo più indicato di altri. Un export manager deve essere specializzato in aspetti tecnici (più il prodotto è tecnico e più si ha preferenza a scegliere una risorsa con un background ingegneristico), legali, amministrativi e marketing. Il tutto affiancato da una disposizione e una capacità comunicativa. L’export manager deve essere in grado di risolvere o, almeno, avere una conoscenza di tutti gli aspetti ed i processi che ruotano intorno al prodotto e la sua esportazione. In ogni caso, tre percorsi danno un potenziale maggiore: Management, Ingegneria e Lingue”.
Il tuo qual è stato?
“Un po’ atipico. Dopo una Laurea Triennale in Economia e Management, ho scelto Economia e Gestione Aziendale. Tuttavia, la mia specializzazione era più rivolta al mondo finanziario, approfondito con un anno presso University of Oklahoma e, finita la prima laurea magistrale, ho scelto di approfondire il mondo analitico iscrivendomi alla laurea magistrale in statistica. Ora sono iscritto ad una terza laurea magistrale”.
In quali lingue conviene specializzarsi?
Se dovessimo guardare alle lingue più parlate al mondo dovremmo mettere come prioritari: inglese, spagnolo, cinese e arabo. Nella realtà alcune lingue avvantaggiano più di altre. L’inglese resta la lingua obbligatoria, l’arabo non è fondamentale (gli arabi con cui si fanno affari hanno un’istruzione secondaria elevata e conoscono l’inglese), cosi come lo spagnolo (si può sempre imparare in età adulta). Le lingue che invece aprono più porte sono sicuramente il cinese, il tedesco ed il francese (in misura secondaria)”.
Altri requisiti necessari?
“Chiaramente, una predisposizione a star fuori di casa. Per un export manager è normale stare fuori 2-3 settimane al mese, ogni mese. Alcune volte capita di star fuori anche 4 settimane. Dopo un po’ comunque ci si abitua ed alla fine è come andare in ufficio alla propria scrivania situata però dall’altra parte del mondo e che cambia ogni paio di giorni!”.
Forza e debolezza dei vostri prodotti all’estero?
“La creatività è il nostro punto di forza maggiore. Unità ad una professionalità elevata. Il punto di debolezza potrebbe essere la dimensione aziendale, poiché sui mercati internazionali ci si va a scontrare il più delle volte con aziende, spesso multinazionali, di dimensioni esponenzialmente maggiori. La loro dimensione, da un lato è negativa perché non si riescono ad adeguare con flessibilità ai cambiamenti, dall’altro però sono dotate di tutti i servizi accessori (certificazioni, report di laboratorio, test specifici, ecc.) che spesso ci fanno essere in difetto perché il nostro prodotto viene messo in comparazione anche dal punto di vista documentale”.
Ci sono difficoltà particolari nell’intercettare certi paesi?
“Ad esclusione della lingua, limite in certi casi (per esempio in Giappone o Cina dove non viene parlato l’inglese), la nostra vera difficoltà sono le barriere all’entrata di alcuni paesi, che richiedono certificazioni (lunghe ed onerose da ottenere a meno che non sei un locale che conosce usi e costumi), ispezioni di materiale in spedizione, ecc. Le barriere all’entrata non sarebbero un grosso limite se le regole fossero chiare ed uguali per tutti, ma certi paesi privilegiano solo alcuni attori. Tuttavia, se si ha la fortuna di trovare il partner giusto, allora la strada è tutta in discesa”.

Federica Bordoni lavora invece per Ericsoft, azienda di Misano specializzata in software gestionale per hotel ristoranti e retail.

Federica, come hai scelto di diventare export manager?
Quando due anni fa ho iniziato la mia carriera lavorativa in Ericsoft, ero priva di esperienza in ambito export e l’azienda, a livello estero, partiva da una situazione embrionale come la mia. Assieme abbiamo lavorato sodo per crescere professionalmente ed internazionalizzare i processi aziendali, raggiungendo i risultati sperati. Le esperienze lavorative e formative precedenti, sono state comunque fondamentali”.
In che modo?
“I periodi di studio all’estero mi hanno aiutato a forgiare l’indole avventuriera e la facilità nelle relazioni interpersonali, mentre le lauree in Lingue dell’Asia Orientale e International Relations mi hanno trasferito competenze economiche, politiche e culturali a 360°, a livello internazionale. Tuttavia, solo lavorando sul campo giorno per giorno mi sono veramente formata”.
A chi volesse diventare export manager cosa consiglieresti?
“Di specializzarsi in un ambito di proprio interesse oltre alle lingue straniere, anche attraverso corsi professionalizzanti e di essere sempre informati sulle notizie internazionali. Nella mia esperienza, è stato grazie alla mia passione per le innovazioni web e alle esperienze lavorative post-universitarie che sono riuscita a ottenere il posto e svolgere il mio compito. Alle aziende di oggi servono esperti e giovani motivati a imparare un lavoro, a cui piaccia viaggiare, interagire in diverse lingue ed essere parte di un network globale. Il lavoro di commerciale estero è stimolante, dinamico, arricchisce continuamente e bisogna essere pronti ad adattarsi a molteplici esperienze”.
E’ necessario conoscere più di una lingua straniera?
“No. L’inglese rimane la lingua commerciale per eccellenza. Comunque, anche il cinese e i sempreverdi spagnolo, francese e tedesco possono aprire le porte ai futuri export manager italiani, perché coprono un’ampia fetta di globo e soddisfano le esigenze delle aziende nazionali”.
Qual è il tuo consiglio?
“Di studiare le lingue di cui si è appassionati e di stare attenti a seguire i boom economici di alcune nazioni: i trend e la domanda di specialisti potrebbero variare significante in pochi anni. Fondamentale è anche cercare di comprendere la cultura e filosofia di vita di un popolo, perché questo fa la differenza nell’approccio con gli interlocutori stranieri”.
Punti di forza e debolezza dei nostri prodotti all’estero?
“Il punto di forza e contemporaneamente di debolezza è l’Italian style: ha ancora un forte valore e fascino nella mente della maggioranza degli abitanti globali e può essere sfruttato come leva per azioni di marketing precise. Il made in italy, ad esempio, può tradursi in accuratezza per i particolari, eleganza, genuinità, unicità, ecc. Sul lato opposto, alcuni mercati possono sottovalutare o diffidare delle aziende italiane, in termini di affidabilità e stabilità. Occorre un adeguamento sostanziale dei prodotti e delle logiche aziendali alle esigenze del mercato di riferimento”.
Ericsoft come ha affrontato la sfida?
“Ci siamo posti come obiettivo gli Stati Uniti, un mercato difficile in quanto principe dell’innovazione tecnologica. Tuttavia siamo riusciti a trovare una fetta di mercato in cui operare e, cambiando la percezione sui software italiani nei nostri interlocutori americani, li abbiamo convinti sulla qualità del nostro prodotto e l’attendibilità del nostro marchio”.
Difficoltà particolari nell’intercettare certi Paesi?
“La scelta di un certo Paese estero avviene dopo un’accurata analisi di mercato, che prende in esame i costi di investimento, la domanda, i competitors, i potenziali target, le condizioni economiche fiscali e molti altri fattori ancora. Questo è fondamentale per non scommettere su Paesi non affini al prodotto e all’azienda. Saranno poi definite le strategie. Oggi siamo agevolati da internet e tutta la gamma di servizi di interazione online: partner e clienti possono essere trovati e raggiunti con una comunicazione semplice e veloce, la fidelizzazione e le campagne di web marketing consentono un ritorno di investimento inimmaginabile. Le difficoltà ovviamente possono presentarsi, allora si deve valutare eventuali problematiche nelle politiche di prezzi, nei target di clientela scelti, nelle campagne di brand reputation a livello locale, per trovare la soluzione e cambiare velocemente rotta”.