Esportazioni in affanno

In tempi di mercato interno debole se le aziende vogliono mantenere, o incrementare, la loro produzione l’unica alternativa è quella di rivolgersi ai mercati esteri, cioè esportare. Per esportare, lo sanno bene le aziende che sono impegnate all’estero, ci vogliono prodotti “straordinari”, per innovazione incorporata, qualità, affidabilità e servizi di accompagnamento (non potete vendere una macchina senza un servizio di assistenza all’altezza, che spesso vuol dire tecnici dell’azienda che conoscono le lingue, a cominciare dall’inglese, per dialogare con l’acquirente).

Dal 2009, anno in cui ci fu una brusca caduta per effetto della crisi appena scoppiata, le esportazioni riminesi sono andate migliorando, con buono slancio fino a tutto il 2011, quando è stato raggiunto il valore di 1,8 miliardi di euro, con un saldo commerciale (differenza  tra esportazioni e importazioni) di 1,2 miliardi di euro.  Nel 2012 si sono mantenute le posizioni, ed è già un buon risultato se anche nel 2013 si manterranno gli stessi numeri, visto che nel primo semestre i bilanci disponibili parlano di un calo di mezzo punto percentuale dell’export, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.   Sarebbe un buon risultato, ma vorrebbe anche dire che da due anni le posizioni di questo territorio sono ferme e  non fanno passi avanti.

I prodotti riminesi si vendono meno su tutti i mercati, dall’Europa all’Asia e l’unico mercato ad andare controcorrente è quello americano, dove la crescita, sempre nel primo semestre di quest’anno, supera il  50 per cento.  C’è un solo però: l’America rappresenta  il 15 per cento del valore delle esportazioni in partenza dalla provincia di Rimini, mentre l’Europa copre quasi la metà del totale. Questo vuol dire che un calo di vendite nel vecchio continente, temporaneamente a meno  5 per cento, pesa più del pur positivo risultato americano.

L’export di Rimini è guidato saldamente  dal tessile e abbigliamento, seguito a molta distanza da macchinari e apparecchi e dai mezzi di trasporto, che insieme non raggiungono comunque i valori del primo.  Ricordiamo, perché denota un cambiamento importante che ha attraversato il tessuto produttivo locale, che fino alla metà degli anni duemila, l’ordine era esattamente il contrario: in testa i macchinari, a seguire l’abbigliamento. Una inversione delle posizione che però è avvenuta più per l’aumento dell’export dell’abbigliamento, e questo è positivo, che per il calo dei macchinari.

Purtroppo un andamento piatto, con una tendenza negativa anche se dello zero virgola nei primi nove mesi del 2013, è quello che caratterizza anche l’export nazionale, dove i saldi sono positivi solo in virtù di un calo più consistente delle importazioni, che potrebbe non rappresentare un segnale completamente positivo se vuol dire  che si produce e trasforma di meno.

Questa situazione pone diversi problemi, tra i quali la dimensione delle nostre imprese, piuttosto piccole quindi più in difficoltà ad affrontare i mercati esteri, e la competitività dei nostri prodotti, che  richiedono ricerca e innovazione, fattori anche questi più facili da trovare nella medio-grandi aziende che nelle piccole.

Rimini, poi, ha un handicap in più: la scarsa propensione ad esportare delle sue aziende, come dimostrato dai 52mila euro di export per impresa attiva, nel 2012, contro  i 164 mila di Reggio Emilia (la prima),  154 mila di Modena,  129 mila di Parma e  128 mila euro di Bologna.  Un campo, quelle dell’export, dove c’è ancora molto da lavorare.