Equità, crescita e recessione

Dall’ultimo bollettino di dicembre della Banca d’Italia apprendiamo che la ricchezza complessiva delle famiglie italiane è la più elevata tra i paesi sviluppati, ma contemporaneamente che il dieci per cento delle famiglie più ricche detiene poco meno della metà di questa ricchezza.   

Nello stesso periodo l’Ocse (l’Organizzazione che riunisce i paesi più sviluppati) ci informa che nel 2008, quindi prima della crisi, il reddito medio del dieci per cento più ricco degli italiani ammontava a 49.300 euro, dieci volte superiore al reddito medio del  dieci per cento più povero (4.877 euro), segnalando un forte aumento della disuguaglianza negli ultimi decenni. Divaricazione nella distribuzione della ricchezza che è stata accompagnata da una sostanziosa riduzione delle

aliquote marginali  (le maggiori) d’imposta sui redditi più alti,  scese, in Italia, dal 72 per cento del 1981 al 43 per cento nel 2010.  A chi si stava arricchendo sempre di più  è stato quindi chiesto di contribuire sempre meno, in proporzione, alle casse dello Stato, che non dimentichiamo vuol dire avere le risorse per finanziare scuole, asili, sanità, ecc., proprio mentre queste restavano sempre più vuote. Dimostrandosi, nel contempo, quanto sia assolutamente infondata l’idea (più ideologica che scientificamente fondata) che se i ricchi diventano sempre più ricchi, poi investiranno di più nella produzione di beni e servizi (la stessa cosa è stata detta per giustificare l’ultimo scudo fiscale in  favore del rientro dei capitali portati all’estero). La controprova è in un Paese che non cresce da almeno un quindicennio. Proprio in coincidenza col periodo di massima concentrazione della ricchezza dell’ultimo mezzo secolo.  Se fosse vera la storiella della “bontà” economica della ricchezza, l’Italia dovrebbe figurare ai primi posti nelle graduatorie dello sviluppo,  ma così non è stato e non sarà, se è vero che nel 2012 ci aspetta un calo del Pil superiore ad un punto e mezzo, con una ulteriore perdita di posti di lavoro.

Con questi precedenti alle spalle non c’è da sorprendersi, è sempre l’Ocse che scrive, se “in Italia il sistema di tasse e trasferimenti gioca un ruolo minore nel proteggere le famiglie contro le conseguenze di grandi contrazioni del reddito da lavoro…(che)  tendono a tradursi in contrazioni di reddito familiare disponibile superiore a quelle osservate negli altri paesi”.  Trasferimenti minori a cominciare dai sussidi di disoccupazione, i meno generosi (la cassa integrazione protegge in parte solo chi ha un impiego ma non i giovani senza lavoro) tra i paesi Ocse.  L’ultima manovra del Governo ha fatto qualcosa, ma per restituire valore all’equità resta ancora molto da fare.

In tale contesto nazionale una provincia, già in recessione,  non può certo fare miracoli, ma questo non toglie che tutti gli attori, pubblici e privati, hanno l’obbligo civile e morale, si potrebbe dire che è la responsabilità sociale numero uno, di orientare gli sforzi in direzione di azioni che ridiano slancio allo sviluppo locale, dando priorità assoluta alla creazione di nuovi posti di lavoro. Un tema, nonostante l’emergenza, troppe volte taciuto.  Questo richiede sostegno alla competitività e all’internazionalizzazione delle imprese, supporto ai giovani per la  creazione di nuove imprese in settori tecnologicamente avanzati e sperimentazione di nuove modalità di lavoro (co-working e spazi hub), investimenti nell’economia verde (a cominciare dalle energie rinnovabili) e nella trasformazione delle nostre città in spazi urbani intelligenti, sostenibili, creativi, amichevoli e a misura delle persone che ci abitano e dei visitatori che si vuole attrarre.  Il lavoro non manca, ma ci vogliono progetti e  tempi brevi.