Donne: dimissioni poco volontarie

di Martina Bacchetta

Se si parlasse di lavoro, di contratti lavorativi, di rapporti lavorativi, sarebbe necessario osservare e appurare delle distinzioni: uomo, donna. Perché sì, ancora nel 2021 nonostante i vari traguardi di uguaglianza ottenuti, vi sono ancora dei rimasugli, se così vogliamo definirli, di differenze e disparità. Lo dimostrano i dati relativi alle dimissioni, e soprattutto a come queste dimissioni vengono trattate e seguite, dimissioni che sono molte e che – spesso e volentieri – hanno come protagoniste le donne lavoratrici, donne che sono anche mamme il più delle volte. Si pensi che nel 2020, secondo il quadro tracciato dall’Ispettorato interregionale del lavoro del Nord Est, in Emilia-Romagna, le dimissioni volontarie dal lavoro di lavoratrici madri e lavoratori padri con figli fino ai 3 anni sono state 4.174 (il 9.8% sul totale nazionale, pari a 42.377) e di queste quasi i tre quarti hanno riguardato donne: 2.984 a fronte delle 1.190 riguardanti gli uomini. Anche se il numero totale delle dimissioni è sceso rispetto al 2019 (5.447), resta in misura predominante il recesso delle lavoratrici madri, pari al 71% dei casi, dato in aumento di 3 punti percentuali rispetto all’anno precedente. Nonostante il blocco dei licenziamenti concordato per contrastare le già pesanti conseguenze dovute alla pandemia da Covid-19 e nonostante anche l’art. 55 del Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151 che prevede la convalida delle dimissioni da parte del servizio ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali competenti per territorio, il numero dimissioni resta comunque abbastanza importante. Quale la ragione predominante? La difficoltà di conciliare l’occupazione lavorativa con le esigenze di accudimento dei figli o anche per ragioni legate ai servizi di cura connesse alla mancata concessione di flessibilità oraria o del part-time, e anche qui il numero ‘rosa’ è pari a 2.137 casi contro i soli 65 riguardanti uomini. Emma Petitti, presidente dell’Assemblea legislativa, commenta: “Le politiche per favorire la conciliazione tra lavoro e famiglia appaiono ancora lontane dall’essere appieno attuate – e continua – La pandemia, nel bene e nel male, ha cambiato il modo di gestire il lavoro, dimostrando che le buone pratiche si possono conservare e valorizzare con gli opportuni aggiustamenti per farle diventare strutturali. È necessario potenziare i servizi di welfare per affrontare i nuovi bisogni di lavoratori e lavoratrici”.

In Emilia-Romagna, parlano i fatti e numeri: a fronte di 164 richieste, la flessibilità è stata concessa in 41 casi, solo un quarto delle istanze presentate, per la quasi totalità da lavoratrici. La difficoltà di conciliazione per motivi legati ai servizi di cura (che è motivo in Emilia-Romagna di 1.328 richieste di recesso del contratto per quanto riguarda le donne e 30 per quanto riguarda gli uomini) si articola per mancanza di parenti di supporto; elevata incidenza dei costi di assistenza al neonato come per esempio asilo nido o babysitter; mancato accoglimento al nido. Ma non finisce qui. Le problematicità riguardano anche la distanza dal luogo di lavoro (che conta in regione 149 richieste di donne e 33 di uomini); ragioni concernenti l’orario di lavoro o anche la modifica delle mansioni svolte. Il settore produttivo maggiormente interessato alle convalide risulta il terziario (con n. 2.985, pari al 71% circa del totale), tradizionalmente caratterizzato dalla prevalente occupazione femminile; ma sono importanti anche i dati concernenti l’industria (n. 670 corrispondente a poco più del 16% del totale) e l’edilizia (n. 133, pari a poco meno del 3%, riferibili però in misura prevalente agli uomini).

Nel 2020, le categorie più colpite dall’emergenza sono state quelle che nel mondo del lavoro lo erano già: le donne, gli stranieri e i giovani. Tanto che, durante lo scorso difficile anno, le donne che hanno perso il lavoro sono quasi il doppio dei colleghi uomini. Il rapporto ISTAT dal titolo “Il mercato del lavoro 2020” realizzato in collaborazione con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali Inps, Inail e Anpal, evidenzia che il tasso di occupazione femminile in Emilia Romagna nel secondo trimestre 2020 è stato del 61,2 %, con una contrazione del 3,8 % rispetto allo stesso periodo 2019, mentre quello maschile si attesta al 76,2 %.

Le donne risultano le più penalizzate nelle assunzioni: nel secondo semestre 2020 la riduzione delle attivazioni di rapporti di lavoro delle donne supera di 6,2 punti percentuali il calo osservato per la componente maschile. Un altro dato importante emerso da questo rapporto ISTAT è che dal 4 maggio 2020 al 30 settembre 2020 sono rientrati nel mercato del lavoro 67mila persone che avevano perso l’occupazione durante il lockdown ma di queste solo il 42.2% ha riguardato personale femminile.

Se si scendesse più nel dettaglio, concentrandosi in maniera più scrupolosa ai dati relativi alla città di Rimini, la musica cambia di poco. La provincia non si discosta, anzi riflette le stesse difficoltà. Sempre prevalentemente dimissioni legate alle problematicità di carattere famigliare e più in particolare cura di figli, a Rimini si contano 291 genitori dimessi. Le dimissioni volontarie nel 2020 sono state 204 per le donne e 65 per gli uomini; dimissioni per giusta causa 11 per le donne e solo 1 per gli uomini. Per la difficoltà legata agli orari di lavoro hanno riguardato: 129 donne che non riuscivano a sottostare ad un full-time contro i 60 uomini; 92 donne e 10 uomini che lasciano anche il part-time. Il mancato accoglimento di richieste di diversa modulazione della prestazione lavorativa è una conferma della insufficiente sensibilità da parte dei datori di lavoro verso le esigenze di conciliazione tra il ruolo genitoriale e il proseguire dell’attività professionale.

L’analisi dei dati sulle dimissioni in periodo tutelato in un anno vissuto in emergenza sanitaria ha probabilmente influito in misura maggiore sulle decisioni delle mamme di lasciare il lavoro – commenta Adriana Ventura, consigliera di Parità della provincia – in quanto in maggior misura occupate nel settore dei servizi, commercio e domestico che spesso danno poca sicurezza e stabilità, pertanto, queste donne lavoratrici sono le prime vittime sacrificali, un fenomeno a cui il blocco dei licenziamenti non è riuscito a mettere freno.” E afferma: “Il tema dell’occupazione femminile e la disparità di genere per superare la crisi post Covid è tornato in questi giorni all’onore della cronaca grazie alle notizie circolate circa l’approvazione della nuova manovra di bilancio da parte del Consiglio dei Ministri, questo ci assicura solo in parte perché il tasso di occupazione femminile in Italia raggiunge solo il 49.5%, uno dei livelli più bassi Europa, una situazione di svantaggio su cui ha pesantemente influito la chiusura delle scuole e il confinamento domestico che ha messo in dura difficoltà tante lavoratrici mamme. Le donne sono una risorsa che il mercato del lavoro difficilmente riconosce e valorizza, questo vuol dire che il Paese perde la possibilità di generare ricchezza in quanto le donne sono risorse essenziali per il nostro sistema sociale ed economico.” Adriana Ventura è diventata Consigliera di Parità a dicembre 2020 e ha preferito fare un commento più generale riguardo l’argomento, anziché una comparazione con il 2019: “Bisogna tener conto che nel 2020 c’è stato il blocco dei licenziamenti, quindi i dati relativi alla pandemia vanno letti con una lente un po’ speciale perché al suo interno ci sono molti ragionamenti che rischiano di falsare poi i risultati. Se parliamo del settore di attività che non hanno subito il lockdown è chiaro che le mamme che non potevano continuare a lavorare si sono sentite perse e si sono dimesse. Altra riflessione risulta quando pariamo di altri settori di attività che sono stati lungamente in lockdown, come i servizi non essenziali, in quel caso le mamme non hanno avuto necessità di dimettersi. Ecco perché a mio avviso i dati del 2020 sono spuri. Bisognerebbe anche scindere e differenziare i dati riguardanti dimissioni per trasferimento ad altro luogo di lavoro: non siamo difronte ad una perdita di lavoro, in quel caso. Sto attualmente lavorando ad una ricerca, in collaborazione con l’Università di Urbino, circa il lavoro somministrato, il settore che secondo me subisce le maggiori discriminazioni, se parliamo di lavoro femminile. La ricerca dovrebbe concludersi a marzo 2022 e quello sarà un momento importante per capire come il nostro territorio si muove in quest’occasione”.

Le donne risultano quindi come le più penalizzate su molti livelli, anche se si lotta tanto per compensare le differenze presenti ancora oggi. Intanto, però, Margaret Thatcher una volta ha detto: “se vuoi che qualcosa venga detto, chiedi ad un uomo; se vuoi che qualcosa venga fatto, chiedi ad una donna”.