Dalla scuola al lavoro

di Isabella Ciotti

Da un lato ci sono le scuole, che sventolano con orgoglio la loro offerta formativa fatta di laboratori, tirocini e tutti quei progetti da cui gli studenti ottengono grandi riconoscimenti, a dimostrazione di quanto sia valida la loro didattica. Dall’altro ci sono le aziende del territorio, che allo stesso modo ostentano un’apparentemente infinita disponibilità ad accogliere stagisti e ad assumere giovani freschi di diploma tecnico o professionale. E poi c’è un’analisi, condotta dal Centro per l’Impiego su 1.048 giovani della provincia, dalla quale emerge che il 75,5% dei diplomati nel 2010 presso questi istituti, a 15 mesi dalla maturità, è ancora senza lavoro.

Sarà che l’indagine include solo i lavoratori dipendenti e non gli autonomi, sarà che sono esclusi coloro che probabilmente hanno scelto di iscriversi all’università, ma il dato lascia intendere che c’è ancora strada da fare. I ragazzi sono fermi, al centro di un campo dove la palla continua a rimbalzare da una parte all’altra senza che nessuno faccia punto. Del resto, dare la colpa alla scuola o alle imprese è un po’ semplificare il problema, ed è idea di entrambi i fronti che la crisi e la mancanza di adeguati investimenti da parte dello Stato siano ancora i maggiori responsabili di quei percorsi non andati a buon fine. In molti poi continuano a ritenere che gli istituti per la formazione professionale offrano tuttora maggiori sbocchi dei licei: su 2.877 giovani riminesi che hanno iniziato a frequentare le scuole superiori lo scorso settembre, il 58% è iscritto agli istituti: 1.020 nuovi alunni ai tecnici e 637 ai professionali.

ITIS, IPSIA, IPSSCT, IPSSAR. Diverse le sigle, dovute le distinzioni: tecnico non è professionale, e ad ogni indirizzo, che sia commerciale o alberghiero o industriale, la sua qualifica. Ma resta il fatto che tutte queste scuole sono da sempre le prescelte da chi vuole imparare un mestiere, da chi dopo il diploma si aspetta di trovare un’occupazione sicura. Sono le scuole della cosiddetta alternanza scuola-lavoro, che come stabilito dall’Art. 4 della legge n.53/2003, prevede lo svolgimento di tirocini formativi in azienda da parte degli studenti tra i 15 e i 18 anni. I quali poi, in base all’Art. 60 del D.Lgs 276/2003, possono dedicarsi a ulteriori stage nel periodo estivo. Dalle tre o quattro settimane nel corso dell’anno scolastico, ai tre mesi durante le vacanze: il tirocinio ad oggi è l’unico vero strumento in grado di accorciare la distanza tra scuola e impresa, un ponte per cui tutti i ragazzi passano ma che sembra essere crollato nei casi in cui, terminati gli studi, i diplomati non si sono stabiliti sull’altra sponda. E allora un po’ di distanza ancora c’è, una distanza che costa, sì, ma più che alle scuole e alle aziende, ai giovani e alle famiglie.

Le scuole: “distanza sì, ma non è colpa della didattica”

Una prima unità di misura della distanza tra istituti tecnici-professionali e aziende specializzate, è la preparazione degli studenti.
“Ci sono cose che si possono imparare solo sul luogo di lavoro – commenta la Prof.ssa Maria Rubini, responsabile dell’alternanza per l’Istituto Tecnico Commerciale Gobetti di Morciano – ma i ragazzi sono preparati, e spesso le aziende li richiedono per un secondo stage o per l’assunzione”. “Gli allievi dell’Alberghiero – racconta il Prof. Giuseppe Ciampoli, dirigente scolastico del Malatesta di Rimini e del Savioli di Riccione – l’anno scorso si sono aggiudicati il podio nei concorsi internazionali AHET per l’enogastronomia e la ristorazione”. Anche gli studenti dell’Istituto Tecnico Industriale L. da Vinci sono stati premiati a livello europeo per i loro progetti. “E alcuni ex alunni – spiega il vicepreside Massimo Urbinati – hanno messo su un’impresa con le loro mani”.
E’ di 123mila euro la cifra stanziata dal Malatesta per le esercitazioni didattiche, 150mila quella impegnata dall’ITIS per l’ampliamento dell’offerta formativa, a cui si aggiunge il Progetto Talenti, che sostiene gli alunni più meritevoli con un secondo stage, un premio in denaro e l’iscrizione alla mailing list di Confindustria. Il Gobetti invece è il primo istituto della provincia ad essersi aggiudicato il Progetto FIXO, promosso dal Ministero del Lavoro: una sorta di centro per l’impiego interno alla scuola, dove i curricula degli studenti incrociano direttamente l’offerta delle aziende.

Un comitato fa la differenza?

Come orientare l’offerta formativa alle necessità del territorio, se non si consulta prima chi un giorno dovrà assumere i diplomati? Poiché per legge (D.P.R. 416/1974) ai Consigli d’Istituto possono partecipare solo studenti, genitori e personale interno alla scuola, molti istituti si sono dotati di un Comitato Tecnico Scientifico dove incontrare gli imprenditori e le associazioni di categoria. È il caso del Gobetti, dell’Alberghiero, e anche dell’Istituto Tecnico per il Turismo Marco Polo. Sulla sua utilità poi c’è anche chi ha dei dubbi: “Alle cialtronate non ho mai creduto – dichiara Giovanni Rossetti, preside dell’Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato L. Battista Alberti – non sarà certo un comitato a favorire l’assunzione dei diplomati”.

A proposito di assunzioni…

Rossetti sostiene che il 90% degli allievi dell’istituto trova lavoro entro un anno. 809 le assunzioni registrate dall’ITIS nel 2012, soprattutto nel campo dell’elettrotecnica e dell’impiantistica. Dal Gobetti si apprende invece che su una classe di 17 studenti di ragioneria, diplomati nel 2011, il 47% ha trovato lavoro presso studi commerciali e aziende manifatturiere della provincia, in alcuni casi le stesse in cui si erano svolti gli stage. La metà di loro con un contratto a tempo determinato, gli altri con quello di apprendistato o con contratti a progetto. Meno assunzioni per il Geometri Belluzzi: dal 2010, quando su 79 ragazzi 66 risultavano iscritti al Registro Praticanti e 67 all’Albo, il calo è stato progressivo. Fino ad arrivare al 2013, quando su 85 diplomati, 29 hanno avviato il praticantato e solo 22 si sono infine iscritti all’Albo Geometri. Comune a tutte le scuole, la mancanza di un monitoraggio completo sugli effettivi sbocchi occupazionali. I dati vengono raccolti saltuariamente, e sono soprattutto gli stessi diplomati a informare i professori sulla loro situazione lavorativa.

Dito puntato contro lo Stato

“Lo Stato continua a considerare la scuola come una spesa e non come un investimento” sostiene Urbinati dell’ITIS. “Un meccanico che andrà a lavorare in un’industria, ad esempio, troverà le macchine a controllo numerico. Per la scuola è inimmaginabile avere uno strumento del genere, quello che possiamo permetterci è un software per la simulazione”. Non solo. “Con la riforma Gelmini le ore passeranno da 36 a 32. E a cosa verranno tolte? Ai laboratori, che prevedono il doppio insegnante, un costo in più per lo Stato”.
“Serve un cambio generazionale, nella politica ma anche nell’imprenditoria locale”, aggiunge Ciampoli dell’Alberghiero. Sarebbe proprio il settore turistico, in città come Rimini e Riccione, a comunicare meno con la scuola. “Paradossalmente si richiedono cultura e alta professionalità agli istituti, quando al di fuori ci sono albergatori che non sanno essere imprenditori. Le aziende romagnole sono per lo più a gestione familiare e stagionali, non investono nel capitale umano ma preferiscono assumere personale straniero a basso costo”. Anche per questo, sostiene Ciampoli, la maggior parte dei diplomati nel settore alberghiero trova lavoro nelle grandi città italiane o all’estero. “Dell’alta ristorazione che ha fatto la fortuna della Romagna si stanno avvantaggiando gli altri paesi. Una follia tutta italiana”.

Le imprese: “Più esperienza pratica e più lingue!”

“Gli studenti dimostrano di avere appreso bene le nozioni, ma sono carenti per quanto riguarda l’esperienza sul campo”. Gianfranco Tonti, presidente di IFI S.p.a, nella sua azienda di arredamento per locali pubblici accoglie regolarmente stagisti dagli istituti tecnici e professionali. L’assunzione, ammette, non è un automatismo, ma a chi dimostra di essere capace, sono offerte delle possibilità. E auspica un incremento dei tirocini: i giovani devono poter vivere le imprese del territorio, conoscerne i problemi, sviluppare quel senso pratico che li aiuti a diventare un valore aggiunto per l’azienda. Molto dipende dagli insegnanti, che “finora hanno espresso una mentalità nozionistica e non pratica”, ma anche dagli stessi imprenditori: “alcuni ragionano egoisticamente, evitano gli stagisti ritenendoli una perdita di tempo”. Anche Indel B, azienda specializzata nella produzione di minibar, frigoriferi e tecnologie per l’ospitalità, accoglie stagisti dagli istituti tecnici e da ragioneria. Al momento quattro ragazzi, che dopo il tirocinio hanno scelto l’università, sono stati assunti dall’ufficio commerciale. Ai giovani in arrivo dalle scuole si richiedono flessibilità mentale, capacità di muoversi nella rete e di risolvere problemi. Ma soprattutto la conoscenza delle lingue, che spesso manca. “Arrivano persone che non sanno mettere insieme tre parole in lingua o non capiscono una domanda elementare in inglese”, racconta il direttore commerciale, Gerardo Boschi. “Oggi il commercio è trading internazionale: non ci aspettiamo che i ragazzi conoscano tecnicismi o codici doganali, ma un istituto commerciale deve almeno fare in modo che i suoi studenti sappiano ragionare con un inglese, uno spagnolo o un tedesco su alcuni temi”. La mancata conoscenza delle lingue, fondamentali per quelle aziende del territorio che si affidano al mercato estero, è in effetti il fattore che più di tutti ci fa perdere terreno, distanziandoci dagli altri paesi. “Un dramma – dice Boschi – io ho fatto le superiori trent’anni fa, ma a quanto vedo, sulle lingue la scuola non è cambiata molto”.