Da una fabbrica che chiude, una Fabbrica che rinasce

Per una area industriale dismessa ci può essere un destino diverso, che non sia la trasformazione, piuttosto monotona e ripetitiva, in appartamenti (in provincia di Rimini ci sono già venti mila abitazioni non occupate) e centri commerciali ?   La “valorizzazione” immobiliare  della storica fornace Fabbri di Rimini, avvenuta nel 1979 e che ha voluto dire la totale cancellazione di ogni  segno che ne ricordasse l’esistenza, e il rischio che corre di fare la stessa fine la ex Corderia di Viserba che risale al 1870, ci dice che il pericolo del cemento è sempre in agguato. Tanto più quanto sono  deboli le resistenze.

Un altro caso di area dismessa è quella dell’ex cementificio Buzzi-Unicem di Santarcangelo, che ha chiuso i battenti nel dicembre 2009, e che oggi è al centro di un confronto molto partecipato tra i residenti del luogo, la proprietà e l’Amministrazione per decidere come riconvertire l’area. 

Ma da una ex fabbrica e area industriale può nascere anche qualcos’altro, che ne mantiene, magari parzialmente,  la fattispecie produttiva senza cancellare i segni e la memoria, e pure qualcosa di più.  E’ il caso della Fabbrica di Gambettola che nasce proprio dalla trasformazione del vecchio cementificio SICLI,  appena dietro la stazione ferroviaria. La storia inizia nel 1989 ed ha come ideatore e protagonista Angelo Grassi, un designer autodidatta di allestimenti fieristici e museali. La sua idea, concordata con l’Amministrazione dell’epoca, è stata quella di trasformare l’area, di 17 mila mq, conservandone la struttura, in un laboratorio artigianale, privilegiando soprattutto i mestieri in via di estinzione.   Angelo Grassi elabora il progetto e con un gruppo di artigiani acquista l’area, che viene prima rinaturalizzata, piantando all’interno un po’ di alberi,  poi aperta ai  nuovi insediamenti.

In poco tempo il fatturato raddoppia: da 4 miliardi di lire del vecchio cementificio a più i 8 miliardi con le nuove attività, che oggi sono diventati, facendo la somma del volume d’affari dei sedici artigiani insediati (falegnami, elettricisti, tornitori, idraulici, scultori di pietra serena, ecc.), circa 8 milioni di euro.

La fabbrica, ci spiega Angelo Grassi, “è un condominio di artigiani, dove ognuno gode del suo spazio autonomo, ma si fa filiera e c’è collaborazione. Con vantaggi non indifferenti: là dove per consolidare una attività ci vogliono dieci anni, qui ne bastano cinque”.

Ma questa è solo una parte, quella più direttamente produttiva, del recupero che è stato operato. L’altra ha a che vedere con il riuso degli spazi originali dell’ex cementificio per attività espositive (di pittori, scultori, fotografici, ecc.), laboratori teatrali, un’aula magna per corsi e riunioni, una cantina per gli assaggi del vino, un osservatorio a 40 metri di altezza, dove una volta si impastava il clinker, un museo fotografico per ricordare la storia del cementificio.

Spazi dai nomi suggestivi che evocano l’attività di un tempo: la Galleria delle colonne, dove  il cemento veniva caricato sui camion, il Teatro e la Saletta dei filtri, dove veniva depurato il vapore emesso durante il processo di lavorazione del cemento, la Sala dei sacchi e le stanze silos, così chiamate perché qui arrivava e veniva depositata la calce e il cemento prima di essere insaccati, il Tunnel della fotografia, dove ha sede il museo fotografico, luogo di transito del cemento, nella parte alta, quella dei forni verticali, il Circolo dopolavoro.  Il tutto tra i macchinari della vecchia fabbrica trasformati in elementi di arredo.  Luoghi che sono frequentati e visitati da circa venti mila persone l’anno, soprattutto studenti, a partire da quelli di architettura.

La Fabbrica nasce, sottolinea Angelo Grassi, come “cittadella di artigiani…a dimostrazione che da un’industria che produceva fumo, rumore e polvere, si possono ricavare spazi di lavoro più salubri, mantenendo inalterata la vocazione produttiva del complesso..Perché se è vero che senza l’economia la cultura non si regge, è pur vero che senza cultura l’economia è ben poca cosa”.

Una domanda che giunti a questo punto molti si faranno è la seguente: va bene per le attività produttive, ma  la parte più strettamente culturale e di servizio è economicamente sostenibile ?  Risposta di Grassi: “Attualmente  nelle attività culturali e di servizio ci lavorano tre persone e si ripaga delle spese. Nel futuro prossimo, quando l’azienda (la ditta di allestimenti di Grassi ha 16 dipendenti) si trasferirà nella nuova area artigianale di Gambettola, quindi ci sarà più spazio per convegni, piccole fiere, mostre, ecc., anche l’attività  più culturale e di servizio dovrebbe cominciare non solo a ripagarsi  delle spese,  ma a produrre utili”.

Le storie non si possono copiare, ma questa esperienza dimostra che un altro uso, delle aree industriali dismesse, è possibile. Dimostra però anche un’altra cosa: che qualsiasi processo richiede un leader che abbia voglia e passione di sporcarsi  le mani. Non basta proporre, ci vuole qualcuno capace di fare.