Cervelli in fuga dal “Belpaese”

di Domenico Chiericozzi

 Nel contesto internazionale si dice brain drain. In italiano, fuga di cervelli. La questione, insieme al tema più generale della precarietà del lavoro per i giovani neolaureati e neodottorati, è stata al centro di un dibattito giovedì scorso, il terzo dei quattro incontri della rassegna Guardando al mio futuro organizzata dal Centro Universitario Diocesano “Igino Righetti” di Rimini. Al seminario “Precarietà e fuga dei cervelli” sono intervenuti il presidente del Polo Scientifico Didattico di Rimini prof. Giorgio Cantelli Forti e il dott. Franco Monti del Laboratorio Analisi del Centro Servizi Area Vasta Romagna.

 Quali cervelli?

In primo luogo, che cosa si intende per “fuga dei cervelli” e di quali “cervelli” si sta parlando? “Ho grossi dubbi nel modo con cui viene normalmente affrontata la questione” ha esordito il prof. Cantelli Forti riferendosi alla confusione e ai diversi luoghi comuni che spesso riguardano anche i mass media. Cerchiamo allora di capire qualcosa in più.

Con l’espressione “fuga dei cervelli”, secondo l’interpretazione della enciclopedia on line Wikipedia, ripresa anche nel convegno, si indica l’emigrazione verso l’estero di persone di talento ad elevata specializzazione. “Ad affrontare il problema – allarga Franco Monti – ci sono due realtà che sono l’Istituto per la Competitività e la Virtual Italian Academy. Quest’ultima stila le classifiche degli scienziati italiani Top in maniera oggettiva e scientifica in base alla produttività e all’impatto scientifico di una persona, nonchè alla continuità di questo impatto nel tempo”.

Quando si parla di “fughe” occorre inoltre considerare come oggi la ricerca sia globalizzata. Il fatto che giovani neolaureati e neodottorati si rechino all’estero in Università e centri di ricerca di altre nazioni è assolutamente fisiologico.

Il problema quando nasce? Quando il saldo tra “partenze” ed “arrivi” è negativo con il rischio che venga rallentato o compromesso il progresso culturale, tecnologico ed economico del paese da cui avviene la fuga a vantaggio di altri.

Secondo un’autorevole ricerca di due fondazioni ripresa nell’incontro, ogni scienziato italiano presente nella Top 20, vale mediamente 148 milioni di euro. In base a queste stime, la perdita subita dall’Italia dal 1990 al 2010 calcolata dal solo ricavato dal rendimento medio di 456 brevetti depositati sarebbe pari a 3,9 miliardi di euro. Una legge finanziaria.

I segreti

Arrivare a stabilizzarsi nel lavoro dipende da tanti fattori. Possono volerci 5, 10, ma anche 15 anni. Ma una cosa è certa. “Le esperienze vanno fatte tutte, bisogna imparare le lingue, essere curiosi, un ricercatore ad esempio deve esserlo molto – fa presente Cantelli Forti – essere pronti e prendere l’autobus quando passa, avere una produzione scientifica, essere disponibili e flessibili, avere della speranza e non cadere nei luoghi comuni”. Anche l’Università però deve fare la sua parte “dicendo chiaramente allo studente se può essere adatto o meno ad un percorso, in modo che non perda tempo prezioso”.

“Un passaggio chiave – aggiunge Monti – è aprire gli occhi sin da quando si è all’università. È importante seguire persone che godono di credibilità, vivere l’università, effettuare un percorso formativo all’estero impegnato, considerare il diploma universitario un punto di partenza e non di arrivo, condividere, e secondo me questo è l’aspetto più importante, il valore del volontariato e di progettualità con le relative associazioni ed istituzioni”. Logica, speranza e futuro. Queste le tre parole chiave emerse.

La dimensione del problema (fonte: Virtual Italian Academy)

I dati fotografano due situazioni: chi è all’estero e vorrebbe rientrare in Italia e chi si trova in Italia e non espatria. Nel primo caso ha stabilmente lasciato l’Italia il 35% dei migliori 500 ricercatori (il 50% se consideriamo i migliori 100). Il 73% di 995 ricercatori con età compresa fra i 30 e 40 anni ha manifestato la intenzione di non rientrare in Italia. Il 27% dei ricercatori rientrerebbe in Italia se ci fossero adeguate opportunità occupazionali (riconoscimento  e valorizzazione della carriera acquisita all’estero), per un reddito equiparabile a quello percepito all’estero e, infine, con una migliore gestione delle risorse destinate alla ricerca (meritocrazia) e dei rapporti fra Università e Impresa. Per le cause di non espatrio, invece, su 3575 ricercatori in Italia sia strutturati che precari il 40% non emigra per motivi di età (compresa fra i 25 e 30 anni) e il 60% per un adattamento al sistema universitario nazionale ed ai rapporti sociali locali. Sul totale l’80%  per l’attaccamento al nucleo famigliare. Ultimo dato, il numero di ricercatori: Italia (70.000), Francia (155.000), Regno Unito (147.000), Germania (240.000), USA (1.150.000), Canada (90.000), Giappone (640.000).