All’asilo nido: un deficit di 400 posti

Non ci sarebbe bisogno di ripeterlo, ma è risaputo che dove ci sono più servizi per l’infanzia le donne lavorano di più. In fondo è piuttosto normale: se non sai dove lasciare tuo figlio/a devi restare a casa. Al contrario, se puoi affidarlo a qualche servizio, anche aziendale, questi piuttosto rari, tanti ostacoli diventano superabili. Poi, certo, ci vuole il lavoro, perché se non c’è, diventa tutt’altra storia.

In provincia di Rimini, nel 2020, le donne che lavorano, ogni cento, sono 55. In Emilia Romagna 62. Cioè 7 in meno. Nel Nord Europa, per fare un confronto, si supera 70. Siamo, quindi, molto lontani dalle situazioni più avanzate. Qualcuno sarà tentato di dare la colpa al covid, ma non c’entra niente. Perché il ritardo ha una storia di qualche decennio.

Quando non lavori, ma potresti farlo, figuri inattiva. Il conto torna. Infatti le donne inattive a Rimini sono 38 ogni cento, quando in Regione sono 27. Undici in più.

Se le donne a Rimini restano inattive perché non trovano le occasioni di lavoro giuste, oppure devono rinunciare ad assumere questo impegno per mancanza di servizi all’infanzia adeguati, non sappiamo. Probabilmente è una combinazione dei due. Quello che però sappiamo è che pure trovandolo tante, alla nascita di un figlio, devono rinunciare: nel 2020 sono state 221, di cui 20 mamme immigrate. Numeri che grosso modo non si discostano da quelli degli anni precedenti. Il fenomeno, quindi, è ben radicato.

In nove casi su dieci, ufficialmente, si tratta di dimissioni volontarie. Ma sul significato di “volontario” è lecito nutrire più di un dubbio.

Già appare strano che in una situazione con un tasso di occupazione femminile così basso le donne decidano “spontaneamente” di rinunciare. Forse diventa più comprensibile quando scopriamo una forte carenza di servizi per l’infanzia, in particolare nel comune di Rimini: dove i posti autorizzati negli asili nido, nell’anno 2019, coprono meno del 28 per cento dei bimbi residenti di età 0-2 anni. Una percentuale piuttosto lontana dalle altre città capoluogo della Romagna e dell’Emilia.

Rispetto al 2015, quando la disponibilità, per Rimini, si fermava al 18 per cento, comunque sempre la più bassa in Regione, la situazione è migliorata. Ma non a sufficienza da colmare il ritardo.

Facendo un conto rapido, per un numero di posti che copra almeno il 40 per cento della platea dei bimbi 0-2 anni, allineandosi in questo modo al resto della regione, bisognerebbe arrivare ad averne almeno 1.300. Dal che si deduce che ne mancano circa quattrocento.

Va meglio, questa volta il dato si riferisce alla provincia di Rimini, con il capoluogo in posizione centrale, per le scuole d’infanzia (3-6 anni) dove l’indice di presa in carico (cioè quanti bambini usufruiscono del servizio ogni cento) si avvicina al 96 per cento, ed è più allineato con le altre realtà romagnole e regionali (Rapporto informativo sull’offerta educativa 0-6 anni in Emilia Romagna). 

Bene, quindi, i servizi per l’infanzia da tre anni in avanti, mentre c’è molto da recuperare in quelli per i minori. Questo per quanto riguarda l’offerta.

Ma poi c’è un’altra questione: non basta che ci siamo posti disponibili, se gli orari di apertura non sono compatibili con gli orari di lavoro. Chiudere un asilo alle 16 del pomeriggio, quando la mamma o il papà lavora fino alle 18, vuol dire obbligare uno dei due, in genere la donna, a dimettersi poco “volontariamente”, oppure a fare i salti mortali per trovare soluzioni che gli consentano di coprire i buchi di orario.

La gratuità del nido per le famiglie di reddito medio-basso, prevista per il prossimo anno, è una misura che va nella direzione giusta, ma non risolve tutti i problemi segnalati.

I servizi per l’infanzia dovrebbero essere al disposizione di chi lavora e non il contrario. Questo richiede un cambio, culturale prima e organizzativo dopo.  Ma è l’unico modo per agevolare natalità, in calo, e occupazione femminile.